Cose che appendo sui muri di casa mia

Mi piace appendere cose ai muri. Foglietti, foto, cartoline. Cose scritte, scarabocchi, ritagli di giornale.

Mi piace appendere ai muri cose scritte. Tanto scritte.

hacker

Tanto, tanto.

tout-va-bien

Mi piace incorniciare le cose più insensate e appenderle.

parete

Si possono osservare qui: un manifesto di Godzilla vince sempre, la prima pagina del manifesto di venerdì 23 maggio 2014, alla chiusura della campagna elettorale alla quale ho lavorato, tre cartoline per promuovere la lettura prodotte da una delle mie librerie preferite di Liegi, un manifesto recuperato a Istanbul durante l’occupazione di Gezi Park.

Mi piace appendere foto e cose recuperate in giro.

telefono

Insegna da cabina telefonica trovata su una bancarella del mercatino dell’antiquariato di Chiavari e immediatamente acquistata.

Poi un giorno, per scherzo e anche no, ho pensato la cosa di cui vado più fiera. E il problema è che un giorno l’ho realizzata.

muro qr code

Quel quadretto al centro della parete contiene una sola immagine: un QR code. E da quel QR code, con un apposito lettore, è possibile accedere a una pagina web in cui viene mostrata l’immagine che sta in quella cornice. E così con un semplice QR code stampato e incorniciato posso decidere quando voglio di cambiare l’immagine “esposta” con quello che voglio. Sembra un’immagine inutile, brutta e un po’ geek, invece è una porta aperta verso infiniti mondi, alla portata di un click. E’ una cosa decisamente inutile, brutta e geek, ma è al servizio della passione più grande di tutte, quella dell’appassionarsi del mondo e delle suo inesauribili bellezze, che non possono essere rinchiuse in una cornice e appese a un muro che, per quanto grande, è finito.

E così, finalmente, ho trovato una funzione utile del QR code.

Verybello e noi

Negli ultimi quattro o cinque giorni ho letto tanto. Ho letto tanto, ma ho letto solo di poche cose. Ho letto di Verybello.it, di Human Factor, della vittoria di Syriza alle elezioni legislative greche. Ho letto articoli e analisi, post su blog e facebook, tweet e mail in mailing list. Se mettessi tutto insieme (e per la gioia di Gallizio) credo di aver letto un tomo da 3-400 pagine.

Ho letto tanto, ma quando leggo le cose sull’internet più facilmente che in altri formati la mia testa crea connessioni logiche tra i contenuti e gli argomenti, connessioni che rendono la lettura più complessiva e restituiscono maggiormente la complessità del mondo.

E infatti credo che Verybello, Human Factor e il trionfo di Tsipras in Grecia siano strettamente connessi tra loro e dicano moltissimo del male che ci affligge, a sinistra.

Di Verybello si è scritto tanto, da tanti punti di vista. Ne hanno scritto persone molto competenti sui temi del turismo, della Rete, dell’usabilità, del marketing. Avrei poco da aggiungere e quindi vi rimando alle lettura di Matteo Flora, Maurizio Boscarol, Paolo Iabichino, Riccardo Luna, Massimo Mantellini.

Leggevo e condividevo (quasi) ogni considerazione, dall’inopportunità del progetto, alle lacune di realizzazione, ai dubbi sull’efficacia dei messaggi… e però qualcosa restava inespresso nella mia testa, mentre scorrevo la mia timeline di Twitter e seguivo i lavori di Human Factor a distanza aspettando gli exit poll greci.

Poi Rocco ha scritto quello che pensavo.

 

Tutta l’operazione Verybello è lo specchio fedele dell’epoca renziana in cui viviamo, dei lustrini appiccicati ovunque per dare parvenza di novità al vecchio che non fa che riproporsi ed essere riproposto, del giovanilismo nemico dei giovani, del mito del merito che non si fa problemi a mortificare le competenze. In un’epoca in cui una “riforma” è ontologicamente positiva e il presidente del consiglio usa Twitter con disinvoltura, come metafora della disintermediazione che applica in ogni campo, violentando così i più basilari principi di funzionamento della nostra democrazia, cosa potevamo aspettarci?
Siamo un Paese che non sa nulla di internet, non ha cultura digitale, un Paese in cui 2 persone su 5 non si sono mai connesse alla Rete. Però siamo il Paese dei tavoli di esperti, dei campioni del digitale, delle innovazioni che brillano e che nascondono il vuoto di cultura, anche e soprattutto di chi ci governa, della passione delle persone competenti usata come foglia di fico per la propria pochezza, per la propria mancanza di visione, di strategia, di progettazione.
Siamo un Paese in cui a parole tutti vogliono il cambiamento, dando ad esso, come a riforma, un’intrinseca accezione positiva: nella realtà nulla cambia mai e se qualcosa cambia non è mai in meglio per la collettività.

E quindi leggevo pareri di ogni tipo e pensavo a quanti buttano la propria passione, le proprie competenze, le proprie energie e la propria voglia di cambiamento al servizio di chi non ha nessun reale interesse nel cambiamento e ha a cuore piuttosto il mantenimento della propria posizione. E me la prendevo con queste persone perché pensavo e penso che bisogna smettere di prestarsi ai giochi di chi non sa, non capisce e comunque non vuole il cambiamento. Pensavo che quella passione, quelle competenze e quelle energie andassero spese altrove, per costruire altro.

Ci ho pensato molto. E poi ci ho ripensato.

Negli ultimi mesi, dalla campagna elettorale per L’Altra Europa con Tsipras in poi, sono rimasta invischiata nell’eterno dibattito della sinistra che cerca se stessa e una forma. Un po’ per ragioni professionali, mi dico, perché continuo ad occuparmi della comunicazione di una delle europarlamentari che ho contribuito a far eleggere, e un po’ perché sono sinceramente interessata a veder nascere in Italia un soggetto politico che possa in qualche modo rappresentarmi e che, all’occasione, si possa votare senza provare vergogna per se stessi il minuto dopo.
E’ un percorso difficile e complesso, che nei giorni scorsi è passato per la conferenza di organizzazione di Sel, la settimana prima per l’assemblea nazionale di quel che resta de L’Altra Europa con Tsipras, che farà probabilmente tappa in Liguria dopo le tragicomiche primarie del PD e che non si concluderà a breve e non è nemmeno chiaro come si concluderà.

Quando pensavo a tutte quelle persone che conosco e di cui ammiro le competenze e la passione e che “da sinistra” vorrebbero cambiare questo Paese e però finiscono per affidarsi a Renzi e sedersi ai suoi inutili tavoli di esperti che resteranno inascoltati penso che li vorrei seduti a un tavolo con le persone che, con altrettanta passione, da mesi e da anni stanno faticosamente lavorando per creare in Italia uno spazio politico alternativo al mainstream delle larghe intese e del There Is No Alternative all’austerità. E quindi, cosa aspettano a mollare Renzi, che del There Is No Alternative ha fatto un programma di governo, nonostante i pugni che promette di sbattere sui tavoli qua e là? Cosa aspettano a raggiungerci e costruire con noi un’idea diversa di Italia e di Europa, di mondo?

Aspettano di intravedere, da queste parti, della credibilità. Aspettano che da queste parti si metta a frutto un’analisi non anacronistica della Rete e che, senza facili entusiasmi ma nemmeno con eccessivo scetticismo, se ne riconosca la strategicità e si comincino ad attrarre le migliori competenze e le migliori esperienze, nazionali e non. Perché c’è poco da fare: non siamo attrattivi. E finché non saremo in grado di attrarre le menti migliori, in ogni campo, temo che resteremo impantanati in lunghe assemblee in cui non mancano le enunciazioni di principi alti e condivisibili, ma che non riescono poi a incarnarsi nelle vite di chi il mondo che vogliamo cambiare cerca di cambiarlo ogni giorno.

Se noi domani, come Tsipras, vincessimo le elezioni e dopodomani formassimo un governo non faremmo quell’obbrobrio di Verybello. Il problema è che probabilmente non faremo nemmeno nient’altro, perché nel frattempo non saremo stati capaci di intercettare le intelligenze e le progettualità che esistono. E questo problema è più grande di quanto è brutto e sbagliato Verybello.

Non voglio Raffaella Paita perché…

E comunque è l’ora di ammetterlo: io non voglio Raffaella Paita candidata a governare la regione in cui vivo non perché sono contraria a un’alleanza col centro destra, alla normalizzazione delle larghe intese, al perpetuarsi di politiche che non fanno che accentuare le fragilità di un territorio compromesso, non perché trovo il personaggio di Paita imbarazzante da più punti di vista e nemmeno perché trovo vergognosa l’ultima storia rivelata dalla stampa.

No, io non voglio Raffaella Paita candidata a governare la regione in cui vivo perché sono un gufo, perché rosico, perché sono vecchia e freno il rinnovamento, perché ce l’ho con Renzi e quindi ostacolo Paita nella mia guerra contro di lui.

«Nous sommes Charlie». Ma siamo anche i genitori degli assassini

Non è facile, in questi giorni in cui i tamburi dei media battono con insistenza a ritmo la storia delle libertà occidentali – prima fra tutte quella d’espressione – colpite dal terrorismo islamico, ascoltare voci dubbiose, incerte, che provano ad articolare una melodia di ragioni e non si accontentano di un’unica nota, battuta ancora e ancora, voci non auto assolutorie e auto consolanti.

Questa lettera che ho tradotto, scritta da quattro insegnanti di Seine-Saint-Denis, la periferia di Parigi di cui sentiamo parlare solo quando la disperazione brucia le automobili, apre uno squarcio di luce e ci impone interrogativi, anche a noi che non siamo francesi e non siamo stati direttamente colpiti dall’attacco a Charlie Hebdo.

Siamo professori di Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso. Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere. Questo discorso ci rassicura, a causa della sua ipotetica coerenza razionale, e il nostro status sociale lo legittima. Quelli di Charlie Hebdo ci facevano ridere; condividevamo i loro valori. In questo, l’attentato ci colpisce. Anche se alcuni di noi non hanno mai avuto il coraggio di tanta insolenza, noi siamo feriti. Noi siamo Charlie per questo.

Ma facciamo lo sforzo di un cambio di punto di vista, e proviamo a guardarci come ci guardano i nostri studenti. Siamo ben vestiti, ben curati, indossiamo scarpe comode, siamo al di là di quelle contingenze materiali che fanno sì che noi non sbaviamo sugli oggetti di consumo che fanno sognare i nostri studenti: se non li possediamo è forse anche perché potremmo avere i mezzi per possederli. Andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone cortesi e raffinate, eleganti e colte. Consideriamo un dato acquisito che La libertà che guida il popolo e Candido fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ci direte che l’universale è di diritto e non di fatto e che molti abitanti del pianeta non conoscono Voltaire? Che banda di ignoranti… E’ tempo che entrino nella Storia: il discorso di Dakar ha già spiegato loro. Per quanto riguarda coloro che vengono da altrove e vivono tra noi, che tacciano e obbediscano.

Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia. Questi due assassini sono come i nostri studenti. Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole. Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili. Ovviamente, non noi personalmente: ecco cosa diranno i nostri amici che ammirano il nostro impegno quotidiano. Ma che nessuno qui venga a dirci che con tutto quello che facciamo siamo sdoganati da questa responsabilità. Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani, noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse, noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo, noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo, noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, ecc. : noi siamo responsabili di questa situazione.

Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna.

Allora, noi diciamo la nostra vergogna. Vergogna e collera: ecco una situazione psicologica ben più scomoda che il dolore e la rabbia. Se proviamo dolore e rabbia possiamo accusare gli altri. Ma come fare quando si prova vergogna e si è in collera verso gli assassini, ma anche verso se stessi?

Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità. Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia. Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio.

Intellettuali, pensatori, universitari, artisti, giornalisti: abbiamo visto morire uomini che erano dei nostri. Quelli che li hanno uccisi sono figli della Francia. Allora, apriamo gli occhi sulla situazione, per capire come siamo arrivati qua, per agire e costruire una società laica e colta, più giusta, più libera, più uguale, più fraterna.

« Nous sommes Charlie », possiamo appuntarci sul risvolto della giacca. Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto. Noi siamo anche i genitori dei tre assassini.

Catherine Robert, Isabelle Richer, Valérie Louys et Damien Boussard

Quella volta che ho fatto molte cose per la prima volta

Viviamo una vita di prime volte. E’ quasi un luogo comune, ma è chiaro che, per questioni di praticità, tendiamo a ricordare meglio le prime volte delle cose. La prima volta è quella che non c’era prima, quella che spesso diventa poi misura di ogni volta successiva, quella dopo la quale nulla sarà più come prima.

Oggi ho fatto un sacco di cose per la prima volta: ho registrato un dominio .website scoprendo contestualmente che esiste quell’estensione (e ho sentito la voce di Paolo Rossi dirmi: «Certo, poi prenderai un cane e lo chiamerai “cane”, un gatto “gatto”»), ho acquistato un certificato SSL per suddetto dominio dopo aver passato anni a fingere di ignorare l’esistenza dei certificati SSL, convivendoci con reciproca indifferenza, ho montato una corda su un violino, un la, tentando poi di accordarlo. A quel punto, mi sono detta, perché non farlo?

Così l’ho fatto.

Ho tentato di recuperare la vecchia ricetta scritta a mano da Marie una decina di anni fa nella mia cucina al decimo piano affacciata sulla Mosa, mentre nella stanza accanto si teneva una riunione del nodo liegese di Indymedia, e non l’ho trovata. Mi sono concentrata sui ricordi, ho cercato di rivedere i tavoli di Lequet e il soffitto ingiallito dal fumo, di sentire la voce del titolare, che persino nei giorni di mercato riesce a comunicare da una parte all’altra della grande sala, mentre scorrevo ricette trovate su internet per capire in che modo arrivare il più possibile vicino alla perfezione.

E quindi l’ho fatto: ho cucinato le prime boulets frites, o anche boulets sauce lapin, anche se il coniglio non c’entra nulla, piatto principe della gastronomia liegese, nonché delle mie cene in terra belga.

Le boulets (che, sì, in francese dovrebbe essere “boulettes”, ma qui invece diventano “boulets”) sono polpette di carne, abbastanza grosse, condite con una salsa agrodolce a base di sirop de Liège, accompagnate da frites e maionese, composta di mele o insalata condita con maionese o vinaigrette. Per fortuna le estati a Liegi durano poco.

Ogni famiglia ha la sua ricetta e ognuno è pronto a vendertela come *la* ricetta. Ma se da anni ormai non credete più all’esistenza della ricetta dei cappelletti o del pesto difficilmente vi lascerete incantare. Come per i cappelletti e il pesto, avrete presto le vostre preferite, che tenderete a tradire solo se la voglia di boulets frites è più forte dei turni di apertura dei ristoranti.

La ricetta che ho provato ha prodotto un piatto che si avvicinava molto a quello che amo, o almeno al suo ricordo. (O forse ne era così forte la voglia che qualsiasi cosa avrebbe soddisfatto le mie aspettative?)

Per farle ho messo a soqquadro l’intera cucina e ho usato:

1 kg di carne macinata (un misto di manzo e suino)
4 fette di pane secco fatto rinvenire in un poco di latte tiepido
5 cipolle tritate finemente (io però ho usato una cipolla e qualche scalogno)
una manciata di prezzemolo
2 uova
sale e pepe
noce moscata
pan grattato
cassonade scura
aceto di vino rosso
1 litro di brodo di carne (io ho usato un dado)
sirop de Liège (che è una specie di melassa che si ottiene facendo cuocere per moltissime ore pere e mele a fuoco lentissimo)
chiodi di garofano
alloro
timo
bacche di ginepro
uvetta
maizena
un poco di burro

Le polpette si preparano come delle polpette: si mescola la carne al pane sgocciolato, a una cipolla tritata, al prezzemolo e all’uovo per ottenere un composto omogeneo da cui si ricavano delle polpette da 100-120 grammi l’una che vanno passate nel pan grattato e cotte in una pentola con del burro. (Qui ricordo benissimo che Marie mi suggerì di passarle un poco in forno, perché restassero più solide e cuocessero in modo più leggero, che il burro è buono, ma…).

A questo punto si fa la salsa.

Tolte le polpette dalla pentola si usa il sugo di cottura delle polpette per far imbiondire le cipolle restanti (o lo scalogno, come preferisco io) spolverate di timo. Si aggiungono 4 cucchiai di cassonade e si lascia caramellare per poi aggiungere un filo di aceto di vino rosso. Si bagna con il brodo e si porta a ebollizione con 4 cucchiai di sirop de Liège, 4 chiodi di garofano e qualche bacca di ginepro. Si aggiungono sale, pepe e 2 foglie di alloro e si lascia cuocere per circa 30-35 minuti. A questo punto si aggiunge qualche chicco di uvetta e della maizena per far addensare la salsa.

Si aggiungono le boulets e si lascia cuocere ancora per qualche minuto a fuoco lento.

Servire caldo, con patate fritte che non saprò mai fare come in Belgio e con birra che io preferisco chiara e molto fredda, come anche una Jupiler. O magari due.

Quella volta che, per testare limiti, ho fatto una zuppa di banane

Ho mangiato zuppa di banane per la prima volta un annetto fa. Confesso che quando mi hanno presentato il piatto davanti non avevo chiarissimo cosa fosse. Non sarebbe cambiato molto: la mia curiosità, decisamente spiccata in ogni campo, in cucina dà il meglio di sé e difficilmente non mangio, o almeno assaggio, qualcosa di sconosciuto.

Quella sera ero con Michel alla Zone, uno dei miei posti preferiti a Liegi. Il giovedì alla Zone è Zeudi gourmand: sei un’associazione o un gruppo di amici e hai voglia di preparare la cena per una settantina di persone? Ti prenoti, proponi il tuo menù e il prezzo e raccogli prenotazioni.

Quella sera c’era l’inaugurazione di una esposizione de La Gazette du Rock e quindi non mi sono preoccupata molto del menù proposto.

La zuppa di banane, dunque.

Non ci crede nessuno e suppongo non ci crediate nemmeno voi, ma è buonissima. E quindi la uso come sistema per testare fin dove posso spingermi. Se cucino la zuppa di banane e accetti di mangiarla abbiamo delle cose da dirci. Se ti piace possiamo persino diventare amici.

Del resto, è sufficiente ti piaccia il curry.

Come si fa? Intanto si fa in poco tempo. 10 minuti di preparazione e 30 di cottura.

Per 6 persone servono:
1 barattolo di pelati
5 banane mature
1 litro e mezzo di brodo
20 cl di panna
sale, pepe, curry
50 gr di burro
30 gr di farina
15 cl di latte

Si fa fondere il burro e si aggiunge la farina che deve essere assorbita dal burro. Si aggiunge il latte e subito dopo il brodo.

Si aggiungono i pomodori e poi le banane tagliate a rondelle. Si sala, si mette il pepe e poi 3 cucchiai di curry.

Si lascia cuocere a fuoco medio per circa 20-30 minuti, facendo attenzione, perché ha tendenza a uscire dalla pentola.

Si mixa, si aggiunge la panna e, se necessario, del curry il cui sapore deve essere preponderante.

A questo punto si serve. E si osservano le reazioni dei commensali.

Fatemi sapere se siamo amici.

 

Sono stata a #WUDrome2014 e ho raccontato la campagna elettorale de L’Altra Europa con Tsipras

Il 13 novembre, su invito degli amici di Nois3, sono intervenuta al World Usability Day a Roma per raccontare il lavoro sul web durante la campagna elettorale de L’Altra Europa con Tsipras.

Il World Usability Day è la Giornata Mondiale dell’Usabilità, nata nel 2005 come iniziativa della Usability Professionals’ Association per garantire che i servizi e i prodotti importanti per la vita umana siano di più facile accesso e più semplici da usare.

Ogni anno, il secondo giovedì del mese di novembre, sono più di 200 gli eventi organizzati in oltre 43 paesi di tutto il mondo per sensibilizzare la popolazione e formare i professionisti a proposito degli strumenti e delle problematiche centrali per la ricerca, lo sviluppo e la pratica di una buona usabilità.

Cosa c’entra l’usabilità con una campagna elettorale? C’entra. Perché una campagna elettorale in Rete non può essere pensata come una campagna fatta di affissioni e messaggi trasmessi in broadcast dai mass media. Organizzare e gestire online una campagna elettorale significa negoziare continuamente lo spazio e il linguaggio, mettersi e mettere in relazione. Per molti versi, chi si occupa di comunicare una campagna elettorale online di questi tempi deve scomparire e “limitarsi” ad accompagnare, facilitare, assecondare processi.

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Hai detto niente.

Con questo in testa ho preparato il mio intervento, intitolato “Anatomia di una campagna elettorale” e che, come amo dire, era più che altro un’autopsia.

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A WUD mi sono innanzitutto presentata, raccontando il mio lavoro, gli ambiti di cui mi sono occupata principalmente in questi anni e sottolineando la mia passione per le cause perse. Senza dubbio la ragione per la quale ho accettato con entusiasmo la proposta di occuparmi de L’Altra Europa con Tsipras.

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A occhio e croce nessuno – o quasi nessuno –  nell’uditorio aveva sentito parlare de L’Altra Europa con Tsipras fino al momento in cui questa foto fu pubblicata su facebook e, a seguire, grossomodo ovunque monopolizzando per giorni il dibattito politico online e no.

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In realtà L’Altra Europa con Tsipras nasce il 17 gennaio 2014 quando un appello firmato da Barbara Spinelli, Marco Revelli, Guido Viale, Luciano Gallino, Paolo Flores D’Arcais e Andrea Camilleri viene pubblicato su il manifesto e Il Fatto quotidiano. A seguito della candidatura di Alexis Tsipras a presidente della Commissione Europea per il Partito della Sinistra Unitaria Europa (GUE/NGL) alcuni intellettuali si appellano affinché nasca anche in Italia una lista a sostegno della candidatura del leader greco, una lista “autonoma della società civile”.

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L’appello viene pubblicato online su Micromega e in poche settimane raccoglie oltre 20.000 adesioni. Poco dopo, grazie a una votazione online su nome e simbolo nasce propriamente “L’Altra Europa con Tsipras” con l’intenzione di unire storie ed esperienze della cosiddetta “sinistra radicale” italiana.

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Sempre a proposito di storia, L’Altra Europa con Tsipras non è il primo tentativo di unire le particelle di sinistra di questo paese nel tentativo di dare loro rappresentanza e rappresentatività. Per restare agli anni più recenti si registrano due esperienze, entrambe fallimentari: nel 2008 Sinistra Arcobaleno e nel 2013 Rivoluzione civile.

Insomma «Dai! Questa è la volta volta!» è cosa che molti si erano sentiti dire già diverse volte, con risultati, diciamo, deludenti. Il compito di spiegare L’Altra Europa con Tsipras e di appassionare le persone non era per niente semplice.

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La sensazione di stare vendendo la fontana di Trevi (peraltro a persone che se l’erano comprata già un paio di volte) era abbastanza forte, a tratti.

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Una grande difficoltà che abbiamo incontrato è stato comunicare nello stesso momento in cui veniva definito l’oggetto comunicato e il soggetto comunicante.

L’Altra Europa con Tsipras non era il PD. Quello, nel bene o nel male, sappiamo tutti cos’è. Quando leggiamo un messaggio che riporta il logo del PD inquadriamo immediatamente chi ci sta parlando, ne conosciamo la storia e l’identità e questo ci aiuta a capire il messaggio.

L’Altra Europa con Tsipras era un soggetto nascente, sconosciuto all’esterno, in fase di definizione della propria essenza all’interno, conteneva un nome difficile da pronunciare e sconosciuto ai più.

Inoltre, si trattava di un’elezione per il Parlamento Europeo e L’Altra Europa con Tsipras sfuggiva alla semplificazione, non solo mediatica, della competizione nazionale: Renzi vs Grillo vs Berlusconi, come se in gioco fosse il governo del Paese. L’Altra Europa ha parlato di Europa per tutta la campagna elettorale, e questo risultava incomprensibile.

Era una lista (e non un solo candidato) con scarsissimi mezzi finanziari, che non permettevano grandi investimenti pubblicitari.

E’ stato difficile, come si diceva, coinvolgere i “vecchi” militanti, scottati da più delusioni e restii a lasciarsi convincere. E’ stato altrettanto difficile scrollarsi di dosso la patina di “vecchio” con la quale eravamo percepiti: la lista dei professoroni, degli intellettuali, vecchi e polverosi contro il giovane, nuovista e dinamico Matteo Renzi.

claudia vago wud.010Noi per primi abbiamo iniziato a giocare con i nostri limiti.

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Abbiamo prodotto materiale (indimenticabile il video di Francesca Fornario) e abbiamo fatto incontrare le persone che, autonomamente, producevano materiale, creando un gruppo segreto su Facebook, L’altro cazzeggio con Tsipras, dove tra battute e scherzi nascevano e si sviluppavano idee.

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Nonostante tutti gli sforzi, siamo stati sostanzialmente ignorati dai media tradizionali per quasi tutta la campagna elettorale.

Quasi, perché in realtà in un paio di momenti abbiamo avuto l’onore di apparire sulle colonne dei principali quotidiani italiani: quando si trattava di dire che eravamo la solita sinistra che litiga e si scinde e, come si è detto, per *quella* foto.

claudia vago wud.013La Rete, per noi, non era un semplice strumento tra tanti. Non era nemmeno il palco gratuito da cui lanciare gli stessi messaggi che circolavano con altri mezzi. Era il vero luogo dello scambio, della costruzione del discorso e del dialogo.

Come tutti, abbiamo aperto account sui principali social network: una pagina Facebook che, da zero, ha superato i 70.000 fan in tre mesi, un account Twitter che in tre mesi ha sfiorato i 12.000 follower, un canale Youtube con oltre 1.000 follower e accaount su Flickr e Instagram per pubblicare e gestire foto.

Avevamo, inoltre, una rete di pagine Facebook e account Twitter dei nostri candidati e dei comitati territoriali che monitoravamo costantemente e con i quali effettuavamo uno scambio continuo e reciproco per rilanciare informazioni dal territorio e dai singoli al nazionale e viceversa.

E’ stata soprattutto la reciprocità a dare forza alla nostra comunicazione, rendendola capillare, aumentandone l’eco e l’efficacia.

Chiedere alle persone di donare il proprio account (407 donatori per Twitter e 529 per Facebook) ci ha permesso di amplificare notevolmente i nostri messaggi facendoli arrivare ad una platea più ampia della nostra e, al tempo stesso, ha permesso ai nostri sostenitori di sentirsi parte di un progetto comune dando un contributo piccolo, ma significativo, mettendoci a disposizione le proprie timeline.

Allo stesso modo, valorizzare i messaggi prodotti dai candidati o sul territorio ha contribuito a rafforzare il senso di collettività, facendo percepire a ciascuno l’importanza del proprio contributo.

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Avevamo, ovviamente, un sito internet (chi non, del resto?) che oltre a contenere informazioni pratiche e materiali (per la raccolta firme prima e le elezioni poi), conteneva una sezione in cui esperti e personalità a noi vicini commentavano fatti di attualità e un blog dei candidati in cui dare spazio al commento da parte di ciascuno dei 73 candidati, secondo i propri temi e ambiti di interesse.

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I social network sono stati il luogo in cui, ancor più che il sito, abbiamo costruito relazioni con i candidati, i comitati territoriali, i simpatizzanti e tutto il pubblico a cui rivolgevamo la nostra proposta.

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E’ attraverso grafiche e materiali prodotti espressamente per i nostri canali sui social network che abbiamo veicolato gran parte dei temi che ci stavano a cuore, con operazioni che spesso si proponevano di “dire la verità” e sempre sfruttavano la creatività per rendere semplice il messaggio.

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E’ attraverso i social network che abbiamo presentato i nostri candidati, con brevi schede contenenti un video, informazioni biografiche e tutti i link utili a conoscere meglio ciascuno dei 73 candidati, tutti espressione di importanti percorsi politici e associativi sul territorio, ma in molti casi poco conosciuti.

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Ma il lavoro più importante che abbiamo fatto è stato fare rete e mettere in rete. Far sì che le persone si parlassero e si organizzassero. Cosa che, con qualche risorsa finanziaria, avremmo potuto fare meglio, realizzando una qualunque delle idee che avevamo a inizio campagna per creare strumenti che connettessero le persone su singoli obiettivi (un volantinaggio, una riunione, una banchetto per la raccolta firme…) e fornissero loro tutto il supporto necessario.

Magari la prossima volta. «Tanto la prossima volta sarà quella buona!».

Cose che ho fatto, cose che faccio e cose che farò

Eccoci al consueto appuntamento con l’aggiornamento sui fatti miei, quelle cose che non interessano a nessuno, ma che mi va di raccontarvi in nome della mia convinzione che la trasparenza, nel mio lavoro, sia un valore fondamentale e sia giusto che si sappia a cosa lavoro e di quali cose parlo per un interesse non solo personale.

Negli ultimi mesi ho continuato a occuparmi del blog di Non con i miei soldi, il progetto di Banca Etica che seguo dal 2012 (un paio di ere geologiche fa, praticamente) e per il quale sono in arrivo presto grandi novità. Nel frattempo potete continuare a seguire il blog magari iscrivendovi al feed, iscrivervi alla newsletter, seguire l’account Twitter o donare il vostro account.

A ottobre ho curato con i miei “soci” Claudio e Filippo la campagna del dipartimento politiche giovanili della CGIL in vista della manifestazione del 25 ottobre. La campagna si chiamava X tutti e noi abbiamo realizzato il sito internet e curato l’account twitter e la pagina facebook. In vista dello sciopero generale del 12 dicembre la campagna continua ed evolve in “X me X tutti” e noi continuiamo a curarne l’aggiornamento del sito e la gestione degli account social. A proposito, se ritenete, potete prestare la vostra voce allo sciopero generale aderendo alla campagna Thunderclap che abbiamo lanciato. (Qui la spiegazione di cos’è e come funziona).

Da alcune settimane collaboro con Eleonora Forenza, europarlamentare de L’Altra Europa con Tsipras e capodelegazione italiana nel GUE/NGL. Il mio compito è progettare e realizzare il sito internet (che sarà a breve online su eleonoraforenza.it) e definire la strategia e le linee guida per la comunicazione online, in particolare sui social network.

Da pochi giorni, poi, ho iniziato una nuova collaborazione, una di quelle cose che ho sognato per anni e invidiato alla mia amica Donata Columbro e finalmente è diventata realtà. Partita Donata, sono diventata la nuova digital strategist di Ong 2.0. E quindi prossimamente mi sentirete parlare molto di Ong, cooperazione internazionale e tecnologie al servizio dello sviluppo. Magari con accento torinese.

E’ tutto? Per ora sì, ma molte altre cose bollono in pentola e quindi credo che presto toccherà un nuovo, trascurabile e non richiesto aggiornamento.

Allerta 2: la soglia che sospende la vita

Pubblicato su il lavoro culturale venerdì 28 novembre 2014.

Mentre inizio a scrivere la pioggia che cade da alcune ore su Chiavari si è fatta più insistente. Dalle 21 siamo di nuovo in allerta 2, il livello massimo in Liguria. Allerta 2 significa che viene sospesa la pulizia delle strade e il ritiro della spazzatura. Le scuole e gli impianti sportivi sono chiusi, così come i parchi pubblici e i cimiteri. Sono sospese le manifestazioni ludiche e sportive, i mercati e mercatini. È la decima volta in un mese e mezzo che succede. Dieci giorni su quaranta in cui la vita quotidiana cambia, è costretta a cambiare. Nelle ore che precedono l’inizio dell’allerta la città cambia volto. Una sorta di rassegnazione guida i gesti e i passi, specialmente nelle città che hanno già vissuto un’alluvione, quelle in cui il giorno dopo le strade si presentavano come uno scenario di guerra che la presenza dell’esercito contribuiva a rafforzare. In quelle città la nuova allerta viene preparata come se si sapesse che il nemico è alle porte: non si può impedirne l’arrivo, si possono solo limitare i danni. C’è rassegnazione nell’aria, come se, colpiti una volta, si possa essere colpiti sempre. I negozi chiudono le saracinesche, fissano tavole di legno agli ingressi, appoggiano sacchi di sabbia per rafforzare le tavole. Molti negozi non apriranno domani, perché nei giorni di allerta 2 ci sono meno persone in giro, perché nei giorni di allerta 2 si può rischiare la vita, o anche solo la propria merce, aprendo il negozio.

Nei giorni di allerta 2 cambia la quotidianità dei bambini e dei ragazzi che non possono andare a scuola. Cambia la quotidianità dei genitori che, costretti ad andare al lavoro, devono fare acrobazie per gestire il cambiamento. E chissà cosa succederebbe se, come il buon senso suggerisce, non fossero solo scuole e edifici pubblici a chiudere ma fabbriche e uffici privati.

Il sindaco di Celle Ligure, all’indomani dell’alluvione che ha colpito anche la sua città, la terza in un mese in Liguria, ha proposto l’impiego di lavoratori in mobilità o in cassa integrazione per lavori di messa in sicurezza del territorio. Non per il soccorso e il ripristino  della normalità, ma per quell’insieme di opere che è sempre più evidente costituiscano la sola vera grande opera di cui il nostro Paese ha bisogno. Il ritornello è sempre lo stesso: non ci sono soldi per la messa in sicurezza del territorio. Però i soldi ci sono per tutto il resto e il sospetto più che fondato è che non si tratti di mancanza di fondi, ma di priorità opportunamente selezionate. Per questo si pensa, come il sindaco di Celle Ligure, di affidarsi all’improvvisazione, al volontariato, alla soluzione di emergenza. La risposta è inadeguata e preoccupante. Preoccupante, perché afferma che non deve esistere alcuna forma di reddito separata dal lavoro e quindi chi percepisce una qualsiasi forma di sussidio o sostegno se la deve guadagnare. Inadeguata, perché occorre una risposta che guardi lontano e non si limiti a tamponare l’emergenza del momento, perché ciò di cui abbiamo bisogno non sono gli annunci di mirabolanti investimenti le cui origini non sono certe né è chiaro il progetto che dovrebbero finanziare.

Mettere in sicurezza il territorio, al punto in cui siamo con i cambiamenti climatici che sono sempre più chiaramente una realtà, significa ripensare lo sviluppo urbanistico delle nostre città e dei nostri comuni. Significa decementificare il territorio, avere un piano per il rimboschimento là dove necessario. Significa pensare a come ripopolare le campagne affinché ci si prenda cura di muretti a secco, rivi, boschi. Significa insegnare e imparare a convivere con un clima diverso, in cui le temperature molto superiori alla media trasformano normali piogge stagionali in tempeste che si abbattono su territori fragili per il troppo cemento e l’abbandono. Mettere in sicurezza il territorio significa compiere, prima di tutto, una rivoluzione culturale, uno stravolgimento nelle priorità che il martellamento acritico ci fa percepire come inevitabili, imparare a guardare lontano. «Il noce è l’albero che meglio spiega la cultura contadina» mi disse anni fa un anziano del paese in cui abitavo guardando la pianta nel mio orto, proseguendo: «i contadini seminavano consapevoli che molto difficilmente avrebbero goduto dei frutti perché ci sarebbero voluti molti anni prima di arrivare ad avere un raccolto di noci. Questo non impediva loro di seminare, per coloro che sarebbero venuti dopo di loro». Non ho mai saputo se fosse solo un’interpretazione dell’anziano vicino di casa, ma mi piace essermi convinta che sia il modo in cui dobbiamo pensare al nostro mondo, il modo in cui dobbiamo affrontare la soluzione di un problema, quello del dissesto idrogeologico, che non è nostro, ma è soprattutto di tutti coloro che verranno dopo di noi.