Contro la retorica del voto utile

Ieri sera ho seguito su SkyTG24 il confronto fra quattro dei candidati alla presidenza della Regione Liguria.

Non voglio qui dilungarmi sull’inconsistenza di Giovanni Toti, candidato del centrodestra, paracadutato in una competizione elettorale della quale, è evidente, avrebbe fatto volentieri a meno. Vorrei glissare anche sull’atteggiamento eccessivamente studiato di Alice Salvatore, candidata del Movimento 5 Stelle, i cui gesti, sorrisi e parole sembravano soppesati a lungo e più volte ripetuti, come in uno spettacolo teatrale, alla faccia della presunta spontaneità.

Vorrei invece dire qualcosa su Raffaella Paita e la sua arroganza. L’arroganza con cui si è definita più volte “giovane” (ripetendo che ha 40 anni, come se a 40 anni si fosse ancora tecnicamente giovani) e implicitamente, quindi, estranea alla vecchia politica, come se negli ultimi 20 anni non avesse fatto vita di partito, ad ogni livello, rivendicando al tempo stesso la sua esperienza e il suo essere parte della macchina amministrativa regionale da tempo, con una evidente contraddizione che non pareva, però, disturbarla. L’arroganza con cui ha ripetuto, come fa da settimane, che il confronto in Liguria è tra due soli candidati, tra due sole parti politiche, tra due sole visioni e progetti: il PD e il centrodestra.

Eppure in quello studio televisivo erano in quattro e, stando ai sondaggi, pare che una parte consistente dell’elettorato ligure non ci stia a farsi inquadrare in un semplificatorio scontro a due, in un finto dualismo di posizioni che, a ben vedere, hanno moltissimi punti di contatto. E basterebbe scorrere la lista dei provvedimenti dell’attuale giunta regionale, di cui Paita fa parte, votati e sostenuti da centrosinistra e centrodestra insieme per rendersi conto che nella maggior parte delle questioni che contano davvero per la vita quotidiana dei liguri la distanza tra Paita e Toti è praticamente inesistente. Un esempio su tutti: la possibilità data ai primari degli ospedali pubblici di esercitare attività privata extramoenia.

Per tacere delle scandalose primarie del PD che hanno visto Paita vincitrice tra le polemiche e, soprattutto, le ombre decisamente consistenti di interferenze da parte di noti esponenti del centrodestra sul voto a favore di Paita. Perché con la giunta Burlando in questi anni abbiamo lavorato bene – dicevano – con lei abbiamo garanzia che continuerà ad essere così.

Ma fa comodo ridurre lo scontro a un noi contro loro, facile da raccontare nel paese del PD al 41%, il partito a vocazione maggioritaria che fagocita tutto e tutti, senza troppo sottilizzare, quello che da tre governi sta insieme al centrodestra con cui non smette di approvare leggi che tutto sono fuorché di centrosinistra, dal Jobs Act alla Buona Scuola.

Ridotto lo scontro a due contendenti la conseguenza è inevitabile: o stai con noi, o stai con loro. Ed è inevitabile, quindi, il ricorso alla retorica del voto utile: se non voti noi, se voti chiunque altro che non siamo noi, vincono loro.

La retorica del voto utile è quanto di più fastidioso esista, perché prescinde dai contenuti, dai progetti, dalle idee. Paita (e Renzi) non dice “vota noi perché faremo queste cose” ma “vota noi perché siamo l’unico argine alla destra”. E non curarti di quello che faremo, di come lo faremo.

Io credo che non ci si debba rassegnare allo stato delle cose, al meno peggio che è bene solo perché numericamente consistente. Credo sia giunta l’ora di chiedersi a cosa è utile il nostro voto, quando votiamo. E ora c’è un sito che vi aiuta a rispondere.

Il video di Renzi, il giornalismo e le nuove forme di intermediazione

Il clima intorno al DDL sulla riforma della scuola – il cosiddetto “Buona scuola”, nome sul quale occorrerebbe aprire più di un capitolo di riflessione – continua ad essere teso, dopo lo sciopero generale del 5 maggio, le insultati dichiarazioni del ministro Boschi, il boicottaggio delle prove Invalsi.

In questo contesto è arrivato nel pomeriggio di mercoledì 13 maggio il video con cui Matteo Renzi, in piedi di fronte a una lavagna e con gessetti in mano, chiede 5 minuti (che sono poi 17) per spiegare le ragioni della “Buona scuola”.

Nelle stesse ore è arrivata a tutti gli insegnanti una mail inviata da matteo@governo.it (indirizzo a cui, mi dicono, non si può rispondere) che tenta di convincerli ad abbandonare la protesta e accettare la riforma.

Ma è il video, in particolare, che ha risvegliato la mia attenzione. Siamo nel pieno dell’era della disintermediazione di cui Renzi è grande fan, al punto da trasferirla dal piano della comunicazione a quello politico, con l’ormai evidente tendenza a saltare i corpi intermedi, dal partito ai sindacati alle associazioni di categoria, nell’elaborare e attuare le proprie proposte.

Non stupisce, pertanto, che Renzi non scelga una trasmissione tv, un’intervista a un giornale per raccontare le proprie ragioni. Appare naturale che, aiutato da una telecamera nemmeno troppo professionale, giri un video e lo pubblichi, senza traccia di montaggio, sul sito del governo, su Youtube (dove – ironia! – i commenti sono disabilitati) e, a seguire, su ogni altro social network. E’ perfettamente coerente che abbia scelto l’autopubblicazione online per distribuire il video, senza passare attraverso un editore, una testata, la pubblicazione controllata e mediata da altri. Senza doversi sottomettere a orari, palinsesti, spazi altrui, interazione con “padroni di casa” di studi televisivi…

E non aveva bisogno di passare attraverso una testata perché, questione di minuti, tutti hanno ripreso quel video ripubblicandolo nei propri canali (alcuni esempi: Repubblica, Corriere, La Stampa, Il fatto quotidiano, RaiNews24…)

Poco male, penserete, siamo un paese in cui l’informazione passa ancora, in larghissima parte, attraverso la tv. E sarebbe davvero un sollievo se non fosse che anche le tv hanno ripreso questo video, in maniera per lo più acritica.

Perché qui sta il punto, sollevato anche in un’interessante discussione sul profilo Facebook di Andrea Iannuzzi: il senso profondo della disintermediazione (comunicativa) operata da Renzi è che basta una telecamera e un account su Youtube per comunicare. Che i giornali e i giornalisti non servono più. O meglio, che in un mondo in cui al presidente del consiglio basta prendere una telecamera per raccontare il proprio punto di vista senza contraddittorio, senza fact checking, senza messa in contesto e in prospettiva giornali e giornalisti devono imparare a interpretare un nuovo ruolo, diverso. Se non sono più coloro che decidono tempi, spazi e modalità per la diffusione di notizie, non possono nemmeno essere coloro che si limitano a pubblicare, acriticamente, qualsiasi cosa passi.

Nel digitale cambiano i modi, ma la messa in contesto resta una funzione fondamentale di chi pratica il giornalismo. La presentazione di diversi punti di vista rimane un principio stabile.

Che sia fatto attraverso uno Storify, alla modifica del video attraverso il montaggio di interventi terzi, all’inserimento di testi e link in sovraimpressione, la funzione del giornalista non può venire meno solo perché il modo di distribuire i contenuti è cambiato.

Quindi, ben venga la disintermediazione. Ben venga l’uso del video di Renzi come “documento”. Ma se il giornalismo non si fa strumento di una nuova forma di intermediazione la nostra democrazia, già fragile e non proprio in salute, rischia di essere compromessa definitivamente.

 

La guerra di Facebook

Che Facebook dichiari guerra agli Stati Uniti è un’improbabile ipotesi prodotta dalla mia fantasia. Che Facebook si stia mangiando, pezzo per pezzo, il web è un fatto di cronaca.

E’ di poche settimane fa l’annuncio che il social network ha stretto un accordo con New York Times, BuzzFeed e National Geographic che porterà le testate a pubblicare notizie direttamente su Facebook.

Nel numero di Left dell’11 aprile, con le bellissime illustrazioni di Antonio Pronostico, ho provato a immaginare quali avrebbero potuto essere le conseguenze di quell’accordo che, si dice, sarà presto esteso ad altre testate.

Che succederà se il nostro diritto ad essere informati starà nelle mani di una sola azienda privata? Sembra fantascienza, ma è una domanda che dobbiamo porci già oggi e a cui dovremmo trovare una risposta entro domani. Oppure l’idea che Facebook da azienda si faccia Stato non sarà poi così assurda.


 

La sera in cui Facebook dichiarò guerra agli Stati Uniti tra gli argomenti di tendenza sul sito del social network troneggiava, inamovibile, la finale dell’ultima edizione di The Voice. Pareva che i 250 milioni di utenti statunitensi del sito non fossero interessati ad altro e non discutessero di altro, almeno a giudicare dalla homepage in cui erano mostrati, in evidenza, i trending topic, cioè gli argomenti di tendenza del momento per guidare fin da subito gli utenti verso i temi più dibattuti.

Ovviamente, le maggiori testate nazionali e internazionali avevano coperto la notizia, non appena la dichiarazione di guerra fu pubblicata con un post messo in evidenza sulla pagina del padrone di Facebook, Mark Zuckerberg. Nessuna “bucò” la notizia. E del resto, come avrebbero potuto ignorare un fatto così eclatante come una dichiarazione di guerra alla prima potenza mondiale? Ognuno a modo suo aveva cercato attraverso la propria pagina Facebook di dare la maggiore copertura possibile, con dirette audio o video, aggiornamenti in tempo reale, schede di approfondimento, intervento di esperti di ogni genere, dalla politica estera all’economia, dalla sociologia a internet.

Eppure la notizia sembrava non filtrare al di fuori delle pagine Facebook delle televisioni, delle radio e dei giornali verso i profili degli utenti, su altre pagine, in gruppi di discussione. Le interazioni con i diversi post erano basse, bassissime. Pochi like, nessuno share, nessun commento. I Facebook Page Manager delle diverse testate faticavano a capire cosa stesse succedendo e ogni sforzo di produrre post accattivanti, arrivando perfino a cercare di integrarsi nel flusso di notizie legate alla finale di The Voice, era vano.

Verso le 22.40 uno studente di Akron, nell’Indiana, che aveva sviluppato un algoritmo per monitorare le prestazioni di alcune pagine notò un andamento anomalo della pagina della CNN: improvvisamente le interazioni e le impressioni di pagina erano crollate vicino allo zero. Incuriosito, aprì la pagina e, avviando il video della diretta che dava conto di quanto accadeva in seguito alla dichiarazione di guerra, decise di condividere il link sulla propria bacheca ed ebbe l’account sospeso per alcune ore, senza particolari spiegazioni.

Più o meno contemporaneamente, un utente di Buffalo apriva la pagina del New York Times alla ricerca di un link che aveva visto passare sulla propria timeline alcune ore prima e si accorse così di quello che stava succedendo. Non riuscendo, per motivi che non capiva, a condividere sulla propria bacheca uno degli articoli pubblicati dal quotidiano, decise di scrivere un post di suo pugno e aprì un gruppo di discussione a cui invitò i suoi più cari amici per commentare insieme quanto stava accadendo. Il gruppo fu chiuso dopo pochi minuti per “violazione delle condizioni d’uso” e gli account di tutti i partecipanti sospesi.

Lentamente, anche i post dalle pagine delle diverse testate iniziavano a scomparire. O meglio, non venivano censurati, né cancellati, ma l’algoritmo che regola quale contenuto appare e in che modo su una pagina da tempo aveva preso a privilegiare i post con molte interazioni, ponendoli bene in evidenza sulla pagina, a discapito di quelli meno seguiti, quindi meno interessanti. Quindi le notizie sull’imminente guerra tra Facebook e gli Stati Uniti finivano per scivolare sempre più in basso e sparire dalle pagine. Meno erano visibili in apertura, meno erano viste e più in basso scorrevano. Non c’era salvezza per una notizia condannata dall’algoritmo.

Il Facebook Page Manager del Washington Post aveva tentato anche di lanciare un’inserzione a pagamento, ma la richiesta era rimasta in sospeso e non veniva né approvata né respinta, mentre intanto il post scivolava nel limbo dei post pubblicati e ritenuti non interessanti. Era il decano tra i suoi colleghi e ricordava bene i tempi in cui la testata per cui lavorava aveva ancora un proprio sito internet, un account su Twitter, un canale su Youtube. Poco alla volta le cose erano cambiate. La possibilità di caricare i video direttamente su Facebook, aggiungendo call to action e tag, la relativamente maggiore facilità nel condividerli da parte dei lettori sulle proprie bacheche, lo spazio privilegiato che l’algoritmo di Facebook dava loro nel flusso di aggiornamenti aveva reso inutile il canale Youtube, che era stato progressivamente abbandonato e trasferito l’archivio sulla pagina Facebook. Avevano abbandonato Twitter solo perché Facebook lo aveva comprato, ne aveva implementato alcune funzioni (tra cui quella dei trending topic) e lo aveva chiuso. Ricordava ancora la drammatica riunione in cui la redazione decise di chiudere il sito internet della testata. Da mesi, ormai, le visite al sito erano una percentuale infinitesimale rispetto a quelle della pagina Facebook e non sempre un link con un’alta interazione su Facebook si traduceva in effettive visite all’articolo sul sito. La tendenza che voleva, già a metà degli anni ’10 del secolo, i giovani informarsi sui social network era andata accentuandosi al punto che ormai nessuno sapeva più che Washington Post, New York Times, CNN e le altre corazzate dell’informazione avevano un proprio sito internet.

E del resto, era l’idea stessa di “internet” ad essere opaca per la maggior parte delle persone, in particolare quelle nate dopo il 2000. Per molti di loro era normale dichiarare di essere abituali utilizzatori di Facebook, ma di non usare mai internet. E in effetti, che bisogno avevano di uscire da Facebook, quando lì dentro potevano condividere esperienze con i propri amici, comunicare con loro, con messaggi personali o di gruppo smettendo di usare l’email, informarsi, perché l’informazione arrivava a loro senza il bisogno di andare a cercarla? Per i più giovani internet semplicemente non esisteva, esisteva Facebook.

Il digitale aveva rappresentato una rivoluzione profonda nel modo di produrre, distribuire e consumare informazione. I ruoli avevano perso definizione: non esistevano più i produttori di contenuto da un lato e i fruitori dall’altro. Ciascuno era l’una e l’altra cosa allo stesso tempo. Modi e tempi di produzione e fruizione delle notizie erano rapidamente cambiati: si leggeva, si scriveva, si commentava, si creavano relazioni tra contenuti ovunque, da ogni genere di dispositivo, in qualsiasi momento. Questa rivoluzione fu così rapida che persino i più preparati e i più audaci faticavano a trovare nelle proprie sperimentazioni su forme e linguaggi dei modi per trarre il profitto necessario a permettere alla macchina di continuare a girare. Ed è comprensibile, quindi, che ad un certo punto l’offerta di Facebook – che aveva un disperato bisogno di contenuto per vivere, e possibilmente contenuto di qualità -si fece così allettante che gli editori non poterono dire di no.

Facebook era il luogo in cui centinaia di milioni di persone vivevano quotidianamente. Facebook era ormai diventato internet. Cedere alla tentazione di far diventare Facebook la propria casa in cui pubblicare in esclusiva contenuti apparve come una necessità e i vantaggi sembravano di gran lunga compensare i limiti di una tale scelta. C’era chi sosteneva la necessità di sottomettere la scelta di aderire all’accordo all’impegno da parte di Facebook di fornire ai produttori di contenuto i dati degli utenti, con la consapevolezza che nel mondo digitale il valore deriva dalle relazioni e che nulla come conoscere la propria audience permette di aumentare il valore del contenuto che si produce. In realtà nessuno aveva così tanto potere da dettare condizioni a Facebook e nel giro di pochi anni tutti i maggiori organi di informazione avevano chiuso i propri siti, limitandosi a curare la propria presenza su Facebook, pubblicandovi articoli e inchieste.

A questo pensava il Facebook Page Manager del Washington Post quella sera in cui la più grande azienda al mondo dichiarava guerra allo Stato più potente e nessuno, a parte gli addetti ai lavori, ne era al corrente. Fissando la parete di fronte a sé, indossando i suoi speciali occhiali Facebook, poteva immergersi nella visione della finale di The Voice, circondato dai suoi amici che commentavano in tempo reale quanto accadeva. Ma nessuno di loro sapeva cosa stava succedendo nel mondo, appena sfilati gli occhiali, e nessuno avrebbe potuto saperlo. Non c’era modo di rompere il muro creato dall’algoritmo, che decideva quali notizie sarebbero state lette e quali ignorate. Non esisteva più un luogo, fuori da Facebook, in cui distribuire contenuto, incontrare persone, discutere, a parte piccole e sparute comunità a cui Facebook rendeva la vita impossibile obbligandole a usare parametri forniti da Facebook per ogni funzione.

Era diventato impossibile non essere cittadini di Facebook. Per Facebook si lavorava, non percependo alcun compenso, producendo contenuto, dentro Facebook si viveva, gestendo ogni aspetto delle proprie relazioni attraverso la piattaforma, il profilo rappresentava la propria carta di identità, fornendo ogni genere di informazione su di sé. E Facebook, l’azienda totale e totalizzante, si era fatto Stato e allo Stato aveva deciso di dichiarare guerra. Perché non erano bastati decenni di ignavia e di colpevole inazione dei governi, il liberismo voleva più libertà e l’unico modo per ottenerla era sostituirsi allo Stato, sbarazzarsene e riassumere in sé ogni potere. E quindi la guerra, improvvisa, inaspettata, incomprensibile. Ignorata, perché nessuno era più in condizione di sapere. Una guerra già vinta in partenza, da decenni, che per fortuna nessuno avrebbe dovuto combattere con le armi, dovendo prima capire da quale parte avrebbe dovuto stare.

Il Facebook Page Manager del Washington Post spense i suoi occhiali e rimase solo nella redazione deserta. Mentre là fuori nessuna guerra stava per essere combattuta ripensò al giorno, anni prima, in cui, durante quella riunione di redazione, fu votato di contribuire alla sconfitta in quella guerra, quella sera di anni dopo.

Facebook pigliatutto

Che Facebook dichiari guerra agli Stati Uniti è un’improbabile ipotesi prodotta dalla mia fantasia. Che Facebook si stia mangiando, pezzo per pezzo, il web è un fatto di cronaca.

E’ di poche settimane fa l’annuncio che il social network ha stretto un accordo con New York Times, BuzzFeed e National Geographic che porterà le testate a pubblicare notizie direttamente su Facebook.

Nell’ultimo numero di Left, con le bellissime illustrazioni di Antonio Pronostico, ho provato a immaginare quali avrebbero potuto essere le conseguenze di quell’accordo che, si dice, sarà presto esteso ad altre testate.

Che succederà se il nostro diritto ad essere informati starà nelle mani di un’azienda privata? Sembra fantascienza, ma è una domanda che dobbiamo porci già oggi e a cui dovremmo trovare una risposta entro domani. Oppure l’idea che Facebook da azienda si faccia Stato non sarà poi così assurda.

Cosa penso quando leggo Camillo Langone

Alcuni anni fa mi trovai a passare una serata in compagnia di amici di amici, persone che vedevo per la prima volta. Li raggiungemmo dopo cena a casa, erano attorno al tavolo e chiacchieravano, ridevano, ascoltavano musica.
C’era questa ragazza che quando rideva buttava la testa all’indietro e faceva venire una voglia incredibile di ridere con lei. E poi ruttava e scoreggiava in continuazione, con naturalezza e – oserei dire – grazia. La prima volta rimasi un po’ sconcertata e lei mi guardò con la coda dell’occhio. Mi accorsi, però, che nessun altro nella stanza mostrava di essersi accorto di nulla e sospettai che, in fondo in fondo, la ragazza avrebbe voluto che qualcuno reagisse in qualche modo, magari per disapprovarne il perbenismo o vai a sapere cosa. Invece nessuno diceva nulla e la serata fu molto piacevole.

Ecco.

Quando Camillo Langone (o quelli come lui) dalle pagine del Foglio scrive le vaccate che scrive, lo fa allo stesso modo: rutta rumorosamente in pubblico sperando che qualcuno disapprovi, per poter portare dalla sua quelli che invece difendono la libertà di rutto. Quindi, lasciamolo ruttare. La nostra vita sarà migliore e lui finirà per essere dimenticato.

#Ritornoallabase: politica anti-austerità e democrazia digitale

Dalla Spagna alla Grecia, la crescita di partiti anti-austerità come Podemos e Syriza è stata accompagnata da una potente ondata di partecipazione politica dal basso, con l’utilizzo di tecnologie digitali come strumento di dibattito e decisione.

A casa nostra simili esperimenti sono stati proposti dal Movimento 5 Stelle, come visto nelle parlamentarie, e nei referendum online per votare scelte politiche e confermare espulsioni.

Queste esperienze possono essere viste, nonostante le loro molteplici contraddizioni, come tentativi di ricostruire quella che un tempo si chiamava la “base”: strutture di partecipazione dal basso nell’attività delle organizzazioni politiche, adattate alle nuove forme di vita di una società digitale.

Siamo di fronte a un nuovo modello di organizzazione politica che sfrutta il potenziale democratico della rete? O si tratta solo di un nuovo plebiscitarismo, edulcorato dall’ideologia partecipativa del web 2.0? Quali sono i modelli di democrazia digitale da cui possiamo imparare per costruire una politica anti-austerità in Italia?

Quest’evento discuterà la natura delle nuove forme di democrazia digitale che stanno emergendo nei partiti anti-austerità in Europa. Porterà assieme attivisti di diversi paesi al centro delle lotte anti-austerità, dall’Italia, alla Spagna e alla Grecia, e esperti di democrazia digitale per discutere quali sono le promesse e i rischi delle nuove forme di organizzazione politica.

Parteciperanno:
Claudia Vago: social media curator, moderatrice
Lorenzo Zamponi: ACT, L’Altra Europa con Tsipras
Paolo Gerbaudo: King’s College London
Jorge Moruno: Consiglio Cittadino di Podemos
Vito Crimi: Portavoce 5Stelle, Senato

Quando: venerdì 10 aprile, ore 15.30

Dove: Università degli Studi di Milano Bicocca, Piazza dell’Ateneo Nuovo, 1. Aula 25, edificio U6

La pagina dell’evento su facebook.

Giornali italiani e Internet. Relationship status: it’s complicated

Avete anche voi la sensazione di vivere un secolo indietro rispetto al resto del mondo? A me succede, spesso, quando comparo quanto accade nel mondo dell’editoria e del giornalismo in Italia e, grosso modo, altrove.

Per raccontare questo ritardo, che a volte assume tratti comici e più spesso grotteschi, ho immaginato di fare un salto nel futuro e da là guardare all’oggi. Almeno, così, sono riuscita ad avere uno sguardo benevolo su certe cantonate e a diluire l’amarezza per le occasioni perse.

messaggero

Manuale di storia per le classi IV e V, anno 2247

All’inizio del terzo millennio d.C. grandi sconvolgimenti caratterizzarono il mondo di quella che, ai tempi, veniva chiamata “Informazione” e, più in generale, “Editoria”. La crisi di fiducia nei confronti dell’istituzione denominata “Stampa” toccava i suoi apici e la diffusione massiva di Internet non faceva che minare l’autorevolezza dei “giornalisti”, coloro che, fino ad allora, erano i depositari del potere di raccogliere, selezionare e diffondere notizie.

A quei tempi una scoperta sconvolgente – che a voi lettori oggi farà sorridere – aprì nuove, impreviste e imprevedibili prospettive: le persone, dotate di connessione a internet e accesso a spazi di autopubblicazione, tendevano a raccontare ciò che accadeva loro, ciò che facevano, ciò a cui assistevano, che fosse mangiare una fetta di torta di mele o una rivoluzione. Le persone condividevano e raccontavano, raccontavano e condividevano. E le notizie spuntavano fuori ovunque, da chiunque. I commenti alle notizie venivano formulati ovunque, da chiunque.

La “Stampa” iniziò a interrogarsi su come integrare questo flusso di notizie e informazioni che scorreva incessante. Alcuni sperimentavano l’integrazione di questi flussi nella costruzione delle notizie, altri chiedevano ai propri lettori di inviare foto del fenomeno meteorologico del momento o di dedicare un augurio al proprio padre in occasione della festa del papà. Certo, non tutti i tentativi erano destinati al successo, molti sarebbero stati (fortunatamente) dimenticati in fretta e ne abbiamo notizia solo grazie al ritrovamento di quelli che gli storici chiamano “post” – testi più o meno brevi pubblicati in raccoglitori di testi detti “blog” – che parodiavano o criticavano apertamente detta usanza di sfruttare la naturale propensione degli esseri umani a mettersi in mostra.

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Che fine ha fatto Occupy Wall Street?

«I love you». Con queste parole, ripetute come un’onda dall’human mic, Naomi Klein ha iniziato il suo intervento davanti a migliaia di persone a Zuccotti Park, a poche settimane dall’inizio dell’accampamento di Occupy Wall Street, il 17 settembre 2011.

«We found each other» – ci siamo trovati – era questa la sensazione che respirava Naomi Klein in quello spazio che, a pochi metri dal centro della finanza globale, tentava di costruire un mondo altro e faceva vivere al quotidiano pratiche che il mainstream voleva impossibili. Zuccotti Park – ribattezzata Liberty square dagli occupanti, recuperando il nome antico e precedente alle tracce di speculazione edilizia che hanno trasformato quello spazio pubblico in “spazio pubblico di proprietà privata” – era il luogo in cui centinaia di persone vivevano notte e giorno insieme, condividendo spazi e servizi, provvedendo alle necessità gli uni degli altri, modificando l’immaginario di chi partecipava alla protesta e di chi vi assisteva.

Non una protesta come quelle a cui eravamo abituati, contro un obiettivo specifico, con rivendicazioni chiare e leader riconosciuti e riconoscibili. Occupy Wall Street era nato da un appello online partito dal Canada a metà di quell’anno incredibile che è stato il 2011, cominciato con la fuga di Ben Ali da Tunisi dopo settimane di proteste nelle strade e passato per le piazze occupate del Cairo e di Madrid. Un nuovo modo di protestare era nato e da quelle esperienze Adbuster ha preso ispirazione a luglio per invitare a scendere per le strade di Manhattan e andare a piantare tende là dove la crisi che ancora oggi ci attanaglia era nata: a Wall Street. Un appello diffuso online con un nome che era già un hashtag, perché ancora prima di cominciare si sapeva che quell’evento andava raccontato, online dove era nato. Quella piazza occupata stava là a ricordare al mondo e ai suoi potenti che, per quanto fosse negato, era possibile immaginare alternative. «Avete rotto un tabù», disse Slavoj Žižek intervenendo in quella piazza, «Come nei cartoni animati il personaggio continua a correre finché non si accorge di avere il vuoto sotto, la vostra presenza qui sta dicendo ai potenti di Wall Street “Ehi! C’è il vuoto sotto di voi!”».

La prima, grande e irreversibile vittoria di Occupy Wall Street è stata quella di cambiare il dibattito pubblico statunitense, introducendo nel mainstream temi e termini fino ad allora impossibili da pronunciare. Uno su tutti: disuguaglianza. Per mesi Occupy non si è limitato ad accamparsi a Zuccotti Park, ma ha occupato ogni spiraglio di dibattito sui media mainstream, aprendo uno squarcio che dopo anni non si è ancora de tutto chiuso se “il 99%” contro “l’1%” è entrato a far parte del gergo politico globale.

Dopo due mesi l’accampamento fu sgomberato nottetempo dalla polizia di New York, contribuendo a rafforzare il consenso nei confronti del movimento, ma indebolendone irreparabilmente la struttura. Senza un luogo fisico in cui far vivere le proprie idee – che non erano semplici rivendicazioni, ma pratiche quotidiane di alternativa possibile – privati di visibilità Occupy Wall Street è scomparso dal nostro orizzonte e dal nostro immaginario, lasciandoci con la sensazione amara di un’occasione, l’ennesima, persa.

L’assenza di rivendicazioni chiare è stata un freno alla trasformazione del movimento in opzione politica e in partito e ne ha minato le basi come movimento.

In realtà, l’impegno degli attivisti si è riversato in molteplici altre iniziative, spesso però meno visibili di un accampamento nel cuore di Manhattan.

A ottobre 2012, forti della loro esperienza in mutual aid e costruzione di comunità, molti degli attivisti di Occupy sono stati in prima linea nel portare soccorso alle vittime dell’uragano Sandy, specialmente nelle zone più colpite e meno coperte dai soccorsi ufficiali. Nella fase post catastrofe sono stati promotori e animatori nella costruzione di cooperative che fornivano servizi e aiuto alle comunità colpite. Alcuni di loro sono oggi a Detroit, la metropoli della bancarotta, a organizzare i cittadini per rispondere ai bisogni della comunità, in primis quello di acqua che minaccia continuamente di essere tagliata perché nessuno è più in grado di fornirla. Là dove occorre ricostruire senso di comunità, là dove l’autogestione diventa la sola risposta alle inefficienze di un sistema che funziona solo sulla base del profitto Occupy Wall Street riappare, ricompaiono le sue pratiche e i suoi protagonisti. Un movimento che ha insegnato a molti a fare politica, a coordinare gruppi di lavoro, a elaborare strategie. Un movimento senza leader che ha prodotto in realtà una leadership plurale,  in cui la Rete era strumento, ma anche luogo di protesta, coordinamento e elaborazione e in cui coloro che gestivano i siti internet, gli account Twitter e le pagine Facebook erano inevitabilmente leader, anche se soft, come descrive molto bene nel suo Tweets and the streets il sociologo Paolo Gerbaudo.

E non è un caso che gli ultimi fuochi d’artificio pubblici Occupy Wall Street li abbia regalati proprio in pubblico e su Twitter. A febbraio 2014 Justine Tunney, una delle prime attiviste coinvolte nel movimento a partire dal luglio 2011, ha preso possesso dell’account Twitter ufficiale – @OccupyWallSt che lei stessa aveva aperto – estromettendo tutti gli altri amministratori, dichiarandosi “fondatrice” del movimento, accusando David Graeber, un altro pilastro del movimento, di sabotaggio e, sostanzialmente, menando colpi a dritta e a manca contro tutti quelli che, secondo lei, non erano abbastanza in linea con la sua idea di Occupy Wall Street: un movimento profondamente anarchico e votato alla realizzazione di una rivoluzione armata che Tunney avrebbe voluto finanziare con un crowdfunding.

Slavoj Žižek, intervenendo a Zuccotti Park, aveva ammonito:  «Non innamoratevi di voi stessi». Pare, invece, che il pericolo più grande fosse non innamorarsi abbastanza, almeno gli uni degli altri.

articolo pubblicato nel numero di Left del 21 marzo 2015

La solitudine del social media manager

[questo post è stato scritto per Che futuro! il 9 marzo 2015]

Avete presente quei meme sui social media manager, come ti vedi tu, come ti vedono gli amici, come sei in realtà?

Ecco.

Il social media manager emana un’aura che solo le cose profondamente misteriose sono capaci di produrre. Ammirazione, fascino, meraviglia, rispetto. Tutto a nascondere la vera domanda: ma questo, esattamente, che diavolo fa? Per la maggior parte delle persone che vi circondano, il fatto che voi siate social media manager fa di voi persone apprezzate,  realizzate, alle prese con un lavoro interessante che vi permette di essere continuamente sul pezzo, al centro dell’azione, aggiornati sugli ultimi fatti e tendenze. E poi c’è quel manager che fa di voi un dirigente, qualcuno con responsabilità, magari personale sottoposto.

La verità è che quel manager è quello che fa di voi colui che gestisce gli account social di un’organizzazione, associazione, azienda. E, poiché siamo in Italia e il digitale ancora stenta a entrare nella routine delle organizzazioni, associazioni, aziende ed è visto ancora, nella migliore delle ipotesi, come un’opportunità di cui ancora non si è capito il senso o, nella peggiore, come qualcosa che va fatto perché non si può non fare, probabilmente dovete far passare il testo di ogni tweet a diversi livelli di vostri superiori, i quali in generale non hanno idea di cosa sia un tweet e, soprattutto, che un tweet deve avere meno di 140 caratteri. Altro che gestire un team. Per non parlare del fatto che, proprio perché siamo in Italia, sul digitale occorre investire, ma non troppo, quindi spesso una persona sola si trova a gestire pagina Facebook, account Twitter, canale Youtube, account Instagram, pagina Google+-che-un-consulente-ci-ha-detto-era-fondamentale-avere-ma-non-abbiamo-capito-perché e vari altri account che, ogni tanto, si decide di aprire sull’onda del next big thing di cui parlano tutti per una settimana, fino a dimenticarsene la successiva, presi dalla next-next big thing.

La verità è che la vostra vita non è tutta luccicante e spesso non è nemmeno troppo al centro del mondo. Più spesso è sul tavolo della vostra cucina, che ogni giorno vi imponete di smettere di usare come scrivania per lavorare e ogni giorno continuate a usare perché tutto sommato è più comodo non doversi alzare per sgranocchiare un pezzo di pane all’ora di pranzo così da poter continuare a postare, twittare, linkare, misurare.

Mentre intorno al termine social media manager si diffonde l’ammirazione e il rispetto voi combattete ogni giorno con un carico di lavoro che a volte è difficile spiegare (e dai, su, non sarà mica lavorare leggere cose, linkare cose, rispondere a commenti, monitorare conversazioni?), con dei superiori che non sanno bene cosa fate e perché, ma qualcuno ha detto loro che siete indispensabili, quindi vi tollerano con sospetto, resistono a ogni vostra proposta di innovazione perché non la capiscono, si chiedono se quello che fate non potrebbe farlo più o meno chiunque altro, purché abbia le password degli account.

Il vostro lavoro è, tutto sommato, trasparente. Almeno fino all’errore, fino alla volta in cui scrivete una cosa sbagliata, rispondete in tono piccato, usate l’account di lavoro per twittare una cosa che sarebbe stata imbarazzante persino col vostro.

Vi dicono e vi ripetono in continuazione, nelle formazioni che seguite, che è importante mantenere la calma, che per quanto il mondo dei social network viva di velocità e istantaneità è opportuno prendere il tempo che serve per verificare le notizie e le informazioni, per correggere i testi che state per postare. Vi dicono che se fate un errore cancellare è sbagliato, perché fare uno screenshot richiede meno tempo che premere sul tasto “cancella”. E uno screenshot è per sempre, altro che un diamante. Vi dicono che quando si commette un errore la cosa migliore da fare è riconoscerlo e scusarsi. Vi dicono di essere gentili con tutti (tanto mica vi vede nessuno se mentre scrivete quel commento accondiscendente a quell’utente pedante vi mordete la mano imprecando i suoi antenati fino alla settima generazione). Vi insegnano che negli zoo non si dà da mangiare agli animali nelle gabbie e in Rete non si nutrono i troll.

Certo, non lavorate in cima a un’impalcatura e un errore difficilmente causa morti e feriti. Ma può causare danni a chi vi paga, perché bene o male, purché se ne parli è uno dei più grandi equivoci della storia e parlare male di un brand o di un’organizzazione fa male a quel brand o quell’organizzazione. E voi ne siete responsabili, col vostro contratto precario e mal pagato. Quindi vi dicono e vi ripetono cosa fare e cosa non fare, con la sicurezza che ha solo chi sa gestire perfettamente tempeste simulate al computer, ma non si è mai trovato dentro a una tempesta vera.

Chi ve lo dice è a volte un vostro collega, in alcuni casi un collega che è passato dall’altra parte e ha abbandonato Hootsuite e altri aggeggi per la gestione di account social e si è messo a insegnare agli altri come fare quel lavoro. Spesso, invece, è qualcuno che non ha mai gestito un account Twitter che non fosse il proprio, che non sospetta nemmeno che Facebook permette di scegliere se commentare col proprio account o con la pagina che si gestisce. E quindi fa presto a parlare. Cosa ne sa lui di un livetweeting complesso? Di un utente fastidioso che non dà tregua? Della responsabilità di rappresentare di fronte a migliaia, milioni di persone e la cache di google un’organizzazione, un’associazione, un’azienda? Si rende conto, l’esperto, che dalle vostre parole (scritte!), dalle nostre azioni dipende il modo in cui chi vi paga viene percepito?

Noi ce ne rendiamo conto. Lo sappiamo bene. Ed è per questo che siamo solidali con voi. Quindi venite qui, siamo certi che se chiedete scusa nessuno se la prenderà e da domani tutto tornerà come prima. Fino al prossimo errore.

[and so on]

Un abbraccio a #Sanremo2015

Caro Alessandro Loppi, ho letto il tweet che hai scritto ieri con l’account di Sanremo, l’ho commentato e ho letto il tuo tentativo di giustificazione e vorrei dirti cosa non mi torna nel tuo discorso.

Dici che per due sere hai lavorato a molte ore di diretta con oltre 1.400 lanci su cinque canali ufficiali. Il tweet incriminato (che non posso linkare perché hai cancellato) è il frutto di un momento di distrazione, dici.

Una cosa che capita, dopo così tante ore di lavoro, dici. Per carità, sapessi gli errori che faccio io, dovendo lavorare costantemente su almeno 3-4 diversi progetti perché con uno da solo non riesco a mantenermi. Succede che, dopo tante ore di lavoro, l’attenzione si affievolisca e si commettono errori. E noi, col nostro lavoro, per fortuna non ci troviamo su un’impalcatura e non maneggiamo macchinari pericolosi, quindi tutto sommato siamo fortunati.

Succede di fare errori, dici. E io sono più che d’accordo. Ma allora, perché non assumersene la responsabilità e basta? Perché non limitarsi a scusarsi, anche spiegando la dinamica se ti va di far conoscere i retroscena?

Perché prendersela con «chi voleva un pretesto per sparare sciocchezze»? Perché puntare il dito altrove?

Perché in questo Paese c’è sempre il bisogno di trovare un colpevole altrove per non doversi mai assumere la responsabilità di niente?

E se proprio vogliamo trovare un responsabile, non sarà chi chiede a una persona sola di gestire 5 account per molte ore, tra diretta e pre e post evento? Perché davvero la Rai per uno dei suoi eventi di punta mette in mano la comunicazione online a una sola persona per così tante ore?