Esiste una struttura che fa capo al Movimento 5 Stelle per diffamare online? Siamo seri, su.

È l’argomento degli ultimi giorni, riassunto in questo articolo de La Stampa.

Quotidiano Nazionale mi ha chiesto di spiegare di cosa si tratta e cosa ne penso. In due parole: una roba ridicola e, probabilmente, pericolosa, perché finisce per rafforzare l’atteggiamento complottista dei cinquestelle. In qualche parola in più, qui l’intervista:

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Prendo a prestito il commento di Antonio Casilli, con il quale ho avuto una piacevole chiacchierata prima dell’intervista:

Dopo la cosiddetta inchiesta di ieri sulla rete “matematicamente ingegnerizzata” dei Twitter pentastellati, il capogruppo PD alla Commissione Affari Costituzionali ha presentato una interrogazione parlamentare urgente perché si faccia chiarezza sulla vicenda. Il circo mediatico-politico è ben avviato, e il newscycle va verso un’apoteosi di approssimazioni e accuse reciproche (http://www.unita.tv/…/cyber-propaganda-anti-pd-e-m5s-quale…/). Ripeto la mia posizione:
1) se il movimento di Grillo scomparisse dalla vita pubblica italien sarebbe un guadagno per tutti (ne parlavo qui nel lontano 2013: https://www.franceculture.fr/…/litalie-est-elle-dans-limpas… « J’ai tendance à conceptualiser ce que Beppe Grillo représente dans le cadre plus vaste de l’histoire italienne du deuxième après-guerre. L’instabilité politique et les blocages politiques ont été marqués par l’émergence de certains mouvements. C’est cyclique en Italie […] : comme la Ligue du Nord […] et le mouvement de droite de Berlusconi. […] Or, quelle est la caractéristique de Beppe Grillo ? […] C’est que lui s’appuie sur un média extrêmement fort et visible, c’est-à-dire son blog. N’oublions pas que le mouvement des « 5 Etoiles » ne s’appelle pas le mouvement « 5 Etoiles » : il s’appelle « beppegrillo.it ». Le nom du blog est dans le logo et dans l’intitulé même du parti. On se retrouve face à un constat assez désespérant : les Italiens ont remplacé un milliardaire patron de télé avec un millionnaire patron de blog. On a remplacé un populiste de droite qui appuyait aussi sa popularité sur un médium (la télé, old media) avec Beppe Grillo et le nouveau média. »)
2) ma questo articolo della Stampa è un clamoroso autogol dei milieu progressisti e antipopulisti della sinistra italiana che, diffondendo disinformazione scientifica (“analisi matematica” senza riscontro metodologico e fatta da principianti) e teorie del complotto (la “rete altamente ingegnerizzata matematicamente per ottenere un massimo di viralità” legata a Putin ecc. ecc.) non fa che allinearsi all’ignoranza e al cospirazionismo grillino. Pessimo segno purtroppo.
Una analisi leggermente più sensata della media, scritta purtroppo sotto pseudonimo, la trovate qui: http://www.nextquotidiano.it/il-complotto-degli-account-tw…/ In breve l’articolo dice che: 1.non conosciamo la metodologia usata dal giornalista della Stampa
2.indipendentemente dalla metodologie, l’analisi non è attendibile perché attribuisce a questa pretesa “cupola” su Twitter della caratteristiche strutturali di tutti i network umani
3.così la sinistra finisce per allinearsi allo stile complottista m5s.
(unico difetto a quest’ultimo articolo: cita un software a caso —Mentionmapp— ma non è affatto detto che sia quello usato nell’articolo di ieri…)

[appunti] Architettura della comunicazione contro l’entropia

Nei giorni scorsi ho letto il bel libro di Federico Badaloni Architettura della comunicazione. Progettare i nuovi ecosistemi dell’informazione, lettura fondamentale per chiunque si occupi di progettare e costruire ambienti informativi, dove sia ambienti che informativi vanno intesi nel senso più ampio possibile.

Ad un certo punto Federico Badaloni affronta il tema delle tag cioè delle «“etichette” che si possono inserire a mano all’interno di ogni contenuto per descrive gli argomenti trattati in esso». Si tratta di strumenti particolarmente utili «all’interno di architetture progettate per applicare automatismi al particolare punto di vista della redazione», perché permette di mettere in relazione tra loro contenuti in maniera automatica, senza richiedere l’intervento di un redattore che, manualmente, passi in rassegna tutto il contenuto del sito. Affinché questo sistema funzioni, occorre tenere a mente tre principi:

  1. Scegliere quale termine inserire significa adottare uno sguardo diacronico: inserire una nuova tag equivale a istituire un “luogo” per radunare i contenuti prodotti in momenti diversi in modo tale che, nel loro insieme, contribuiscano a far comprendere un argomento alle persone.
  2. Scegliere quale tag inserire è esprimere una visione della realtà.
  3. L’insieme delle tag è instabile e tende all’entropia. Pertanto è bene che ci sia una sola persona deputata a creare e/o modificare tag.

In base a questi principi, Badaloni stende una sorta di vademecum utile a redazioni e content strategist:

  1. Prima di aggiungere una tag a un contenuto domandatevi: “a chi cliccherà su questo tag fra tre mesi, farà comodo vedere questo contenuto oppure no?”
  2. Se decidete di partire da zero preferite l’universale al particolare. Tra “animali” e “orso bruno” scegliete “animali”, farete sempre in tempo ad aggiungere “orso bruno” in seguito nei contenuti per i quali sarà necessario.
  3. Quando scegliete un termine domandatevi se avrà senso tra un anno (per esempio evitando abbreviazioni, a meno che non siano di uso consolidato)
  4. Domandatevi se introducendo una determinata nuova tag se ne dovranno inserire altre di conseguenza.
  5. Siccome leggiamo da sinistra verso destra, è importante che per prima compaiano le tag più importanti.
  6. Nel dubbio, meglio inserire una tag in meno che una in più.
  7. Una discussione su una tag vale quanto la discussione sul titolo dell’articolo.

E poi sono inciampata in questo:

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Photo credit: cambodia4kidsorg via Foter.com / CC BY

Quella volta che Renzi mi propose di intervistarlo

Oggi ho seguito un pezzo di #matteorisponde, la diretta Facebook nella quale Matteo Renzi rispondeva a domande e commenti ricevuti da cittadini (e solo cittadini) senza filtri e senza intermediazioni.

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Niente di male: Renzi ci ha da tempo abituati al suo uso disinvolto della tecnologia e dei social media per una comunicazione diretta e non mediata, specchio della sua allergia (politica) a qualsiasi forma di corpo intermedio che possa interporsi tra sé e il fare.

Oggi seguendo la diretta su Facebook mi è venuta la curiosità di vedere come le diverse testate avessero deciso di affrontare questo evento e ho constatato con amarezza che nessuna aveva pensato fosse opportuno assolvere al proprio compito di “creatore di senso”, guida, costruttore di cornici di significato. Il video era stato embeddato semplicemente, come si trattasse del video di un gatto che gioca con la propria coda. E poiché la mia critica a questo abdicare alla propria funzione da parte del giornalismo non è nuova, ho deciso di scrivere un tweet:

Al quale Renzi ha risposto:

https://youtu.be/nlpmkNdX8d4

E io l’ho preso in parola. Gli ho mandato questa sera, via @nomfup, una proposta che è fatta più o meno così:

Propongo di replicare un’intervista in stile #matteorisponde con domande che provengono dalla Rete. Il video, però, sarà embeddato anche in un sito creato ad hoc nel quale, accanto al video, starà una chat a cui parteciperanno 5-6 persone, giornalisti ed esperti, che potranno commentare in diretta ed effettuare una sorta di fact checking e a cui Renzi potrà ovviamente rispondere, come risponde alle persone che commentano su Facebook e su Twitter.

Il sito è pensato per essere la simulazione del sito di una testata giornalistica, per realizzare quello che, non solo secondo me, dovrebbero fare i giornali in casi come questi.

E insomma, aspettiamo di sapere se #matteorisponde.

EDIT del 6 aprile. Alcune puntualizzazioni sulle obiezioni e le osservazioni che mi si fanno più spesso:

⇒ Il tuo problema è che Matteo Renzi usi i social network per comunicare direttamente con i cittadini? E che,…

Posted by Claudia Vago on Wednesday, April 6, 2016

Fare rumore per proteggere la propria privacy online

Per far perdere le vostre tracce in Rete, fate rumore. Più semplice che installare sistemi di anonimizzazione, l’offuscamento è una tecnica sviluppata da ricercatori e attivisti che, in questi tempi di sorveglianza generalizzata, può tornare utile. L’idea è di proteggersi dalla sorveglianza generando informazioni superflue, inutili, ambigue o inesatte che rendono la targettizzazione poco precisa e inefficace.fog

Rue 89 ne ha parlato con Vincent Toubiana che si occupa di un programma che si chiama TrackMeNot (cioè “non mi tracciare”) caso di scuola in materia di offuscamento, sviluppato da due ricercatori statunitensi, Daniel C. Howe et Helen Nissenbaum, nel 2006. All’epoca AOL aveva pubblicato online, per errore, i dati relativi alle ricerche di più di 650.000 dei suoi utilizzatori, rivelando non solo l’ampiezza dei suoi archivi, ma anche fino a che punto le ricerche effettuate ci parlano di chi le effettua.

Un esempio? Questo documentario ha, come colonna sonora, le ricerche dell’utente che AOL ha registrato come numero 711391  e ci raccontano delle sue insicurezze e delle sue storie d’amore.

TrackMeNot

Il principio di TrackMeNot è semplice ed efficace: una volta installato nel vostro browser (Firefox e Chrome al momento) il programma genera automaticamente delle ricerche sul motore di ricerca che volete (Yahoo, Goole, Bing), nascondendo le vostre vere ricerche in un mare di ricerche non pertinenti. L’estensione è completamente personalizzabile permettendovi, per esempio, di escludere alcune parole chiave dalle ricerche generate automaticamente.

Mentire a fin di bene

La sorveglianza funziona, spiega Vincent Toubiana, perché siamo noi stessi a fornire informazioni esatte.

«Non mento molto, in generale. Ma perché non mentiamo più spesso ai motori di ricerca?

Certo, li usiamo per ottenere informazioni precise e perdiamo tempo a dare loro false informazioni. Ma se possiamo automatizzare il processo, non ha praticamente più alcun costo per l’utente»

Oggi TrackMeNot è usata da 28.000 persone su Firefox e 11.000 su Chrome.

Aujourd’hui, TrackMeNot est utilisé par 28 000 utilisateurs sur Firefox et 11 000 sur Chrome.

L’arma dei deboli

Helen Nissenbaum, professoressa all’università di New York e una dei creatori del progetto, ha recentemente pubblicato con Finn Brunton un libro sull’offuscamento, a metà tra l’arringa e il manuale d’uso. Per Nissenbaum e Brunton l’offuscamento è l’arma dei deboli, perché sconnettersi è un’opzione sempre meno realistica, riservata ai più potenti o ai più radicali. La maggior parte delle persone non vogliono privarsi di tutte le interazioni online, ma vogliono avere più controllo sull’uso dei propri dati ed essere meno tracciate.

Un’arma vecchia come il mondo

Nel libro Nissenbaum e Brunton tracciano una storia dell’offuscamento, tattica vecchia quanto la dominazione. Alcuni esempi riportati nel libro:

Spartacus: nel film di Kubrick i Romani vanno a cercare Spartaco, ma ignorano chi sia. Perciò ogni schiavi si alza e dichiara «Spartaco sono io».

La carta argentata per confondere i radar usata da alcuni aerei durante la Seconda Guerra mondiale.

Più recentemente e più divertente: gli attivisti di Improv Everywhere si sono recati in un supermercato Best Buy vestiti come i commessi del negozio seminando una confusione totale.

Secondo Vincent Toubiana, l’offuscamento è una tattica più generosa perché protegge potenzialmente tutti, a differenza delle tecniche di anonimizzazione.

«L’anonimizzazione protegge solo chi la usa. Invece, se sai che il 5% dei tuoi utilizzatori si servono di TrackMeNot, senza sapere chi, siete obbligati a supporre che tutti coloro che cercate di profilare stanno potenzialmente mascherando le loro azioni. Con questa probabilità non nulla, non potete affermare con certezza che quella persona ha compiuto quell’azione. Protegge tutti.»

E per farlo basta un piccolo rumore nei dati, mentire un po’, introdurre degli intervalli tra sé e il mondo, intervalli di imprecisione e di mistero.

Photo credit: mysza831 via Foter.com / CC BY

Una settimana petalosa, piena di reazioni e con progetti di legge che twittano

Panoramica di una settimana intensa sul web (e fuori dal web). La trovate anche in quella che ho deciso sarà una sorta di newsletter del tutto a-periodica e che potete seguire iscrivendovi a questo canale Telegram.

Martedì 23 febbraio, il web diventa #petaloso

Nel pomeriggio una maestra del ferrarese pubblica sul proprio profilo Facebook una serie di fotografie di una lettera ricevuta dall’Accademia della Crusca in risposta a una propria lettera inviata alcune settimane prima:

Qualche settimana fa, durante un lavoro sugli aggettivi, un mio alunno ha scritto di un fiore che era "petaloso". La…

Posted by Margherita Aurora on Tuesday, February 23, 2016

Che il popolo della Rete si sia scatenato nelle ore successive e per tutto il giorno seguente, che l’argomento sia fuoriuscito dalla Rete per passare su ogni altro mezzo di comunicazione è cosa che vi è sfuggita solo se siete stati su Marte quel giorno. [E i corsivi stanno lì solo perché voglio sottolineare quanto sia assurdo pensare che esista uno spazio online abitato da alcuni e uno offline abitato da altri e che i contatti tra questi spazi e gruppi umani avvenga solo sporadicamente]

Mi interessa poco decidere se “petaloso” ci piace o meno (come ha scritto qualcuno, da anni usate “apericena”, con che diritto giudicate della bellezza di una parola?), discutere del real time marketing che è stato fatto da praticamente tutte le aziende che hanno account online. Mi interessa però sottolineare una cosa che ho scritto mercoledì mattina sul mio profilo Facebook: la migliore lezione che possiamo trarre da questa storia è che non conta quanto la tua comunicazione online sia curata e innovativa, quanto riesci a coinvolgere influencer, spendere in adv… quello che conta davvero, alla fine, è che tu faccia bene la cosa per cui esisti. L’Accademia della Crusca ha ricevuto una lettera e ha risposto (voi a quanti messaggi, mail e lettere di clienti, utilizzatori dei vostri servizi e utenti non rispondete?). La risposta, delicata e ben scritta, ha spinto la maestra a pubblicarla sul proprio profilo social. A questo punto la “pubblicità” è stata fatta automaticamente da migliaia di persone.

In un mondo in cui ciascuno di noi dispone di spazi di pubblicazione autonomi la soddisfazione di chi usufruisce di un prodotto o servizio è fondamentale e l’efficacia del messaggio di una persona soddisfatta che condivide il proprio giudizio con la propria rete sociale è più importante di qualsiasi piano strategico di comunicazione. Insomma, fate bene la cosa per cui esistete, coltivate la vostra reputazione, poi pensate a come comunicare.

Esempio opposto: Trenitalia e #meetFS.

Mercoledì 24 febbraio, Facebook introduce Reactions per tutti ovunque

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Dopo una sperimentazione durata alcuni mesi in alcuni paesi selezionati, Facebook ha reso disponibile a tutti la possibilità di reagire a un post in maniera più articolata rispetto al semplice “Like” intorno al quale la piattaforma è cresciuta in questi anni. Non c’è un bottone “Dislike” (sarebbe stato troppo bello) ma una serie di altre possibili emozioni: amore, risate, gioia, tristezza, stupore e rabbia.

Si tratta di una piccola innovazione, ma avrà conseguenze enormi, come scrive bene Giuseppe Granieri. Perché le funzioni di una piattaforma determinano il modo in cui le persone che usano quella piattaforma interagiscono tra loro, determina la qualità delle relazioni, danno forma alla community. Oltre al fatto che ora Facebook saprà con maggiore precisione cosa ci piace e quanto, così da fornirci contenuti sempre più disegnati sui di noi e rinchiudendoci sempre più in una filter bubble.

E a proposito di come le funzioni delle piattaforme non sono neutre e contribuiscono a dare forma alle comunità che le abitano, ho già scritto le mie perplessità su Commo, la piattaforma del nuovo soggetto politico della sinistra che nascerà a dicembre. Perplessità che confermo anche ora che Commo è online e potete vedere con i vostri stessi occhi.

Giovedì 25 febbraio, il giorno in cui un disegno di legge si è messo a twittare

In Francia si discute di “Loi Travail”, una legge di riforma del mercato del lavoro al cui confronto il nostro Jobs act è un provvedimento progressista, oserei dire rivoluzionario. Poiché l’opposizione monta, il malcontento è diffuso e si preannuncia un percorso difficile per l’approvazione, il governo Valls ha pensato bene di creare un account Twitter in cui è la legge stessa che parla in prima persona, si racconta e invita a “conoscerla meglio”. Una roba che Renzi di sicuro soffre per non averla pensata per primo.

Quando una pensava che la frontiera della disintermediazione fosse stata definitivamente superata, scopre che si poteva osare ancora. Bastava avere coraggio. E poco senso del pudore.

Commo: c’è la piattaforma della sinistra che ancora non c’è

Alcuni mesi fa ho accettato l’invito a partecipare a un gruppo di lavoro che aveva l’obiettivo di pensare per poi far progettare e realizzare una “piattaforma digitale” che fosse al servizio del nascente soggetto politico della sinistra al quale da tempo in diversi lavorano.

Il gruppo di lavoro si è riunito una sola volta a settembre scorso a Cecina. In quell’occasione dissi una sola cosa che mi pareva quella più importante da cui partire con il nostro lavoro: costruiamo una piattaforma che risponda alle esigenze delle persone che il soggetto politico vuole coinvolgere, non alle esigenze della dirigenza del soggetto politico.

A metà ottobre con un numero molto ristretto di persone che facevano parte di quel gruppo di lavoro ho passato una giornata negli uffici di Leftloft a Milano per alcune ore di brainstorming non particolarmente fruttuoso, molto confuso.

Poi più niente, finché poco prima di Natale non ho ricevuto i miei dati per accedere a una versione beta della piattaforma. Versione che, da allora, è stata integrata di alcune funzionalità molto basilari e che sarà presentata sabato 20 febbraio a Roma durante Cosmopolitica.

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Poiché se n’è già scritto e si inizia a parlarne nelle ristrettissime e asfittiche cerchie online della sinistra anticipo quello che dirò durante la presentazione a Roma.

Commo (questo il nome della piattaforma, deciso non ho capito bene da chi e in che modo) nasce con un difetto che, temo, non sarà emendabile: contrariamente a quanto auspicavo a Cecina, la fase di indagine e ascolto, attraverso interviste ai potenziali utilizzatori della piattaforma, è completamente mancata. Sarebbe stato sufficiente coinvolgere professionisti dell’user-centered design ai quali affidare il compito di progettare la piattaforma e le sue funzionalità prima di iniziare a scrivere righe di codice.

Invece Commo, come temo il percorso politico che dovrebbe servire, nasce dall’alto, da processi che si dicono aperti, partecipativi e contendibili, ma sono in realtà predeteminati e poco discutibili.

Commo non è una novità assoluta. Possibile ha da qualche mese una sua piattaforma, probabilmente più orientata alla profilazione che alla partecipazione, ma tant’è, esiste. E a proposito: qual è lo scopo di Commo? Dato che non è stato chiesto ai militanti e ai possibili futuri militanti di cosa avevano bisogno, cosa si è deciso che dovesse fare la piattaforma? Discutere e votare? E siamo sicuri che così com’è Commo può favorire una discussione costruttiva e aiutare un processo di decision making?

E qui un paio di osservazioni: i processi decisionali non sono tutti uguali e gli strumenti che li supportano non sono indifferenti, né neutri. Poiché il soggetto è ancora in costruzione e, suppongo, le proprie modalità di funzionamento sono ancora in discussione, ha senso progettare uno strumento che supporta un processo decisionale che ancora non è stato concordato?

In questi giorni ripenso spesso a Lawrence Lessig e al suo Code is law. Lessig parla di tutt’altro codice, ma l’affermazione secondo la quale il codice con cui è scritto qualcosa (la Rete, uno strumento, un’applicazione, una piattaforma) è legge si presta bene a spiegare i dubbi che ho nei confronti di una piattaforma fatta e finita (al netto delle funzionalità che devono essere ancora progettate e realizzate) prima che sia fatto il soggetto che la dovrebbe usare. Una piattaforma è uno strumento, non è un fine in sé. Uno strumento serve a un soggetto per compiere una o più azioni per raggiungere uno scopo. Il soggetto precede lo strumento. La definizione dello scopo da raggiungere segue immediatamente. Per ultimo arriva lo strumento. Qui, invece, manca il soggetto, l’obiettivo è vago e però abbiamo già uno strumento. E se pensate che il modo in cui è scritto il codice di uno strumento sia indifferente e che lo strumento possa essere usato come si vuole, vi sbagliate e non poco.

Non sono una grande frequentatrice di eventi Facebook, nel senso che quasi mai guardo gli inviti che ricevo. Quindi è…

Posted by Claudia Vago on Friday, September 4, 2015

Code is law. E per uno strumento che vorrebbe favorire la partecipazione all’interno di un soggetto politico che si vuole nuovo, le premesse sono molto poco promettenti.

Un pronostico, che non è un auspicio: se non si rivede radicalmente tutto il progetto questa piattaforma rischia di non decollare mai. Sempre che decolli il soggetto politico a cui dovrebbe servire, ma questa è un’altra storia.

 

 

Da Sassuolo alla morte dell’ironia: è l’ora di finiamola

Io non sapevo chi fosse Simone Zaza.

Non che ora ne sappia molto di più, ma ho avuto modo di sapere che giocava nel Sassuolo e ora gioca nella Juventus. La storia è lunga e ci porterà molto lontani, da Sassuolo e dalla Juventus, quindi mettetevi comodi.

Una mattina di fine novembre Alessandro mi passa in chat questa immagine.

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Grandi risate (tuttora, guardandola, rido) e decido di farne un post su Facebook.

L’intenzione è quella – chiara, sottolineata dal testo in giallo sull’immagine – di denunciare l’approssimazione con cui vengono fatte circolare notizie online, facendo diventare vere storie che non lo sono, inventando volti di delinquenti vari. E invece finisco per imparare in che squadra gioca Simone Zaza.

Il dito, la luna.

Giovedì il copione si ripete. Alessandro, chat, immagine. «Vuoi ritentare l’esperimento Zaza?».

mbutuAncora risate (di più, ché stavolta non ho bisogno della didascalia per sapere di chi si tratta). Post.

E qui è andata molto peggio. Perché non solo ho avuto diritto a un ripasso dell’intera filmografia di Morgan Freeman, ma ho preso anche ogni genere di insulto. E ho avuto modo di pensare.

L’immagine da cui è partito tutto, quella di Zaza spacciato per terrorista, è un tipo di immagine molto diffusa in Rete e, in particolare, su Facebook. I social network, come si sono sentiti ripetere alla nausea tutti quelli che ci lavorano, sono sempre più visuali. Lo sono per ragioni estrinseche (il nostro cervello tende a “processare” molto più rapidamente un’immagine rispetto a un testo) e per ragioni intrinseche (Facebook, ma anche Twitter, nel corso della sua evoluzione ha teso a dare sempre maggiore rilievo alle immagini nelle timeline e nel newsfeed, aumentandone le dimensioni e rendendole quindi più “evidenti”). Un social media manager sa che l’efficacia di un messaggio aumenta se questo viene abbinato a un’immagine di impatto. Inoltre, fino a pochissimo tempo fa, solo la didascalia di un’immagine o di un video era ricondivisa tale e quale quando qualcuno decideva di fare share del nostro post. Il testo introduttivo a un link, invece, andava perduto nella condivisione. Usare un’immagine e inserire il link nella didascalia era un modo per assicurarsi che, insieme al link, venisse diffuso anche il testo che introduce e invoglia alla lettura.

Poi ci sono i testi sopra all’immagine. Testi che, in qualche modo, si fanno immagine. Sono l’espediente tipico di chi vuole denunciare qualcosa e vuole essere sicuro che la propria denuncia risalti. Incorniciato dal testo l’oggetto dell’indignazione sembra quasi illuminato da un occhio di bue. In questi casi, poi, l’immagine non è bella, non attira l’attenzione per le qualità dei colori, dell’inquadratura, della composizione. In questi casi l’immagine è vera, non deve per forza essere di buona qualità, deve trasmettere realtà.

La potenza di queste immagini sta nell’essere autoevidenti, autoesplicative. Non c’è bisogno di testi di accompagnamento, di analisi, di dati… È la morte dell’informazione che pretende di celebrare il trionfo dell’informazione.

Nella maggior parte dei casi al centro dell’immagine ci sono persone, più raramente oggetti o luoghi, persone che si sono macchiate di delitti orribili, fosse anche solo aver attraversato deserti e mari per cercare scampo dalla guerra, dalla fame, dalla miseria. Sono stupratori, attentatori, migranti che rubano soldi allo Stato, mentre lo Stato lascia gli italiani alla fame. Nella maggior parte dei casi sono persone “comuni”, di cui si è sentito parlare magari nelle cronache locali, a volte nemmeno in quelle, perché le storie vengono inventate di sana pianta. Persone i cui volti sono sconosciuti e per i quali un volto vale un altro. Basta saper fare una ricerca su Google Images.

Se al posto di Morgan Freeman fosse stato utilizzato un volto meno noto del cinema statunitense, probabilmente staremmo parlando di un altro film: non quello in cui Morgan Freeman viene difeso da migliaia di internauti indignati e offesi con l’autrice del post, ma di quello in cui un signore di colore viene trattato da parassita (per usare un eufemismo e fermarmi solo a questo) da migliaia di cittadini inferociti per i presunti privilegi che spettano agli altri. Perché questo è il meccanismo. E sono sufficienti i due commenti sotto al post originale sul terrorista Zaza e un giro di una mezzora su Facebook per verificarlo.

Cos’è successo qui?

Qualcuno (e mi dispiace non sapere chi, dato che l’immagine mi è arrivata per lunghi giri) ha composto un’immagine evidentemente ironica. Da cosa si capisce che è ironica?

  1. Perché è stato scelto Morgan Freeman e non un attore meno conosciuto: è stato scelto perché fosse riconosciuto.
  2. Dal nome usato: Mbutu Dugongo. Vi ricorda qualcosa? Forse due?
  3. Perché la cifra scelta è ridicola (moltiplicate per 30 e poi tornate qui).
  4. Perché l’accusa (vestirsi elegante) è ridicola (e comunque con quei soldi al giorno per 30 giorni ci vestiremmo eleganti tutti).

Quindi, quale scopo ha questa immagine? Semplice e banale, dire: ridicolizzare questo genere di meme fatto da chi, invece, ha intenzione di aizzare odio e razzismo.

Cosa succede quando la condivido? Nel mio mondo ideale, la maggior parte delle persone ne ride, alcuni esplicitandolo e altri no, molti ignorano, una minoranza non riconosce Morgan Freeman perché non mette piede al cinema da 25 anni e ricondivide indignata perché BASTA E’ UNO SCHIFO DEVE FINIRE.

Nel mondo in cui ho condiviso quell’immagine, invece, questo mondo qui in cui viviamo, a una minoranza residuale di gente che evita le sale cinematografiche come la peste è corrisposta una maggioranza strabordante di persone che ha sentito l’impellente bisogno di far sapere a tutti che:

  1. Non sono mica scemo/a io! Ho capito che quello è Morgan Freeman!
  2. Sei proprio una scema Claudia Vago che non riconosci Morgan Freeman (mica come me)!
  3. Sei una razzista, fascistella, delinquente pericolosa che diffondi immagini allo scopo di fomentare il razzismo, Claudia Vago!

(Poi per fortuna ci sono anche quelli che hanno capito l’immagine, ma una strettissima minoranza, ahimé. Roba che potrei invitarvi a mangiare una pizza e troveremmo un locale che ci accoglie)

Mancanza di educazione alla lettura di immagini? Mancanza di educazione all’ironia e al sarcasmo? Mancanza di familiarità con la satira? Abuso di politically correct che rende impossibile fare battute su minoranze di qualsiasi tipo? Non lo so, credo ci sia un misto di tutte queste cose nelle reazioni che da ieri leggo a quel post (e a quelli che sono seguiti). C’è di sicuro una mancanza di abitudine a interrogarsi su ciò che si vede.

Per restare all’esempio specifico, se pure una persona non mi conosce e mi vede postare una cosa del genere prima di partire con i “razzista” e i “fascista” potrebbe dare un’occhiata a chi sono, alle cose che condivido. Chiedersi se è davvero possibile che io non abbia riconosciuto Morgan Freeman, rispondersi che no e cercare di capire quindi che cosa vuole dire quell’immagine, oltre al significato letterale.

Per tornare a un discorso generale, perché non è di me che stiamo parlando, noto sempre più spesso la totale incapacità di leggere i sottotesti, di dare a un testo (qualsiasi, anche a un video o a una fotografia) un’interpretazione che scavi un poco sotto alla superficie e al testo stesso. Viviamo in un mondo al primo grado, come direbbero i francesi, perdendoci completamente il secondo, che è quello in cui, generalmente, succedono le cose più interessanti.

Questa incapacità, abbinata alla vasta diffusione di questo genere di immagini che ha la pretesa di portare informazioni e illuminare di  verità produce un mix esplosivo che fa diventare vera qualsiasi leggenda metropolitana, che diventa fondamento della conoscenza di fenomeni (fate una prova e chiedete intorno a voi quante persone sanno “quanti euro vengono dati” a ogni migrante per averlo letto su Facebook grazie a uno di questi meme).

Quelle persone a cui non la si fa e hanno riconosciuto Morgan Freeman e dato a me dell’ignorante probabilmente sono convinte che ci sia in giro un tizio dal nome inventato che spaccia droga nei giardinetti e non viene arrestato. Sono quelle che, di fronte alle immagini che stiamo pubblicando in questa nuova pagina, ti dicono che Peter Sellers è un attore di tanti filmettini sull’India o che quella non è la Caritas, ma un negozio di Gucci.

Furbi, loro. Tristi e un po’ più poveri, noi.

 

La Grande Scommessa: il film che dovete vedere in questo 2016

C’è un film che dovete assolutamente vedere.

Star Wars? No, quello lo avete già visto tutti. Quo vado? Macché, quello lo state vedendo tutti, facendo finta che non.

Impossibile vedere il film di Zalone in questi giorni, è introvabile.
Impossibile vedere il film di Zalone in questi giorni, è introvabile.

Il film che dovete andare a vedere e che dovete far vedere a più persone possibili si chiama La Grande Scommessa e parla della crisi dei mutui subprime.

Sì, parla di finanza. Di quella cosa che 9 su 10 di voi quando la sentono nominare alzano gli occhi al cielo e dicono che è difficile e anche  non ci capisco niente. E lasciano perdere, tornano alla formazione della partita di domenica e lasciano che a occuparsi di finanza siano gli altri, quelli che ci capiscono.

Così, mentre voi vi occupate di tutt’altro, quelli che ci capiscono fanno disastri inenarrabili. Tipo concedere mutui ad alto rischio, impacchettarli in fondi di investimento, venderli a banche di investimento che ci speculano sopra con prodotti derivati che si chiamano CDS, Credit Default Swap, una sorta di assicurazione che permette a una moltitudine di investitori di guadagnare,anche se non titolari del rischio coperto dal derivato. Le banche e le agenzie assicurative vendevano mutui e azioni ad altissimo rischio per poi comprare CDS sugli stessi. Un gioco praticamente perfetto, anche grazie alle agenzie di rating che davano giudizi molto alti a questi prodotti permettendo alla ruota della roulette di continuare a girare.

Finché la ruota si è fermata.

E che la ruota stesse per fermarsi, che l’intero mercato immobiliare statunitense si reggesse su prestiti ad alto rischio e fosse sull’orlo di un burrone fu chiaro da subito ad alcuni eccentrici investitori le cui storie (vere) sono raccolte nel libro di Michael Lewis, The Big Short – Il grande scoperto, da cui è tratto il film di Adam McKay in uscita in Italia il 7 gennaio.

Perché, tutto sommato, era sufficiente osservare per rendersi conto che alcune cose non andavano. Osservare e avere voglia di affrontare la verità, che, come si dice nel film, è come la poesia: a nessuno frega niente della poesia.

La Grande Scommessa è un film intelligente, che rende comprensibile a un vasto pubblico argomenti che solitamente risultano ostici, che ricostruisce la genesi della crisi nella quale siamo ancora immersi senza fare sconti a nessuno e senza temere di fare ridere su un dramma globale.

Notevoli gli stacchi dalla storia in cui Anthony Bourdain spiega cosa sono i CDO preparando una zuppa di pesce, Margot Robbie immersa in una vasca da bagno sorseggia champagne e spiega cosa sono le cartolarizzazioni, Selena Gomez al tavolo della roulette che mostra cosa stava succedendo nei mercati finanziari, con scommesse su scommesse su scommesse giocate sulla convinzione diffusa che “andrà tutto bene”, finché qualcosa non va male.

Un ottimo cast (Christian Bale, Steve Carell, Ryan Gosling, Brad Pitt, Melissa Leo e Marisa Tomei) e un’ottima regia che danno ritmo e spensieratezza alla storia di uno dei più grandi disastri finanziari di sempre e fanno uscire dal cinema con maggiore consapevolezza e smisurata incazzatura per quanto è stato fatto succedere.

Ne ho scritto anche per Non con i miei soldi

 

Entra in vigore la Cookie Law e tu #bloccailcookie!

Oggi entra in vigore la Cookie Law. Il tuo sito è in regola? Te lo dico io: no. E non lo è nemmeno questo blog. Anche se togliessi i bottoni per la condivisione social, sparsi qua e là ci sono video embeddati da YouTube. Nel post prima di questo, per esempio, c’è un video preso da Sky. E quel video lì vi installa un cookie di Sky e io non so cosa fa quel cookie lì, probabilmente profila ad uso e consumo di Sky e della sua pubblicità.

Secondo il Garante della privacy, quindi, io dovrei impedire a Sky (o Youtube, Facebook o chi per loro) di installare i loro cookie finché voi non avete dato esplicito consenso. Che non è cliccare “Ok” su quel banner che vi è spuntato in alto. Quella è una semplice informativa. Il blocco dei cookie e la richiesta di consenso sono più complicati da fare. Non esistono, al momento, plugin in grado di farlo. Io non so scrivere il codice che serve e gli amici programmatori a cui mi sono rivolta mi hanno risposto che serve tempo e soldi. E io, come dire? per un sito in cui scrivo cose del tutto trascurabili una volta ogni morte di papa vorrei non spendere soldi. Ma nemmeno prendere una multa da decine di migliaia di euro.

Quindi?

Quindi chiudo tutto. E’ una soluzione. Rimangano online solo quelli che sanno provvedere o hanno i mezzi economici per provvedere. Tutto questo limita la libertà di espressione? Certo.

Oppure firmo la petizione che serve a chiedere al Garante di preoccuparsi dei piccoli blog, delle associazioni, delle piccole imprese, dei freelance e di mettere a punto e rendere disponibili a tutti gli strumenti che servono a mettersi in regola, se l’unica soluzione possibile è scaricare il controllo dei cookie sui gestori di siti.

Non c’è molto tempo, firma anche tu la petizione e proviamo a riportare un po’ di buon senso nella soluzione a un problema che c’è, ma che non può trasformarsi in un problema più grande.